Poco fa leggiucchiavo il mio diario intimo del 2015, mi annoiavo, forse era il caldo che mi rendeva insofferente e incontentabile, poi ho trovato questo bozzetto. È un pezzo scritto per il blog che curavo per Mentelocale, giornale on line diretto all'epoca dalla direttora Laura Guglielmi. Non so dire se questa è la versione poi pubblicata ma, a distanza di così tanti anni, mi piace ancora e lo ripubblico qui.
***
“Cerco un po' d'Africa in giardino
tra l'oleandro e il baobab,
come facevo da bambino,
ma qui c'è gente, non si può più:
stanno innaffiando le tue rose,
non c'è il leone, chissà dov'è...
Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me,
mi accorgo di non avere più risorse senza di te,
e allora
io quasi quasi prendo il treno
e vengo, vengo da te,
ma il treno dei desideri,
dei miei pensieri all'incontrario va”
Azzurro, che bella canzone! La ascoltavo poco fa e,
come una mia personale Madeleine, ha spalancato le chiuse della memoria; tutta
una cascata di ricordi ha invaso il mio quieto sopravvivere…
Azzurro, cantata da Celentano, la ascoltavo tanti anni
fa a San Michele, nel giardino di casa durante i miei lunghi, solitari e noiosi
pomeriggi domenicali. Avevo una radiolina Philips color nero che, come tutti i
ragazzi di allora, tenevo appoggiata all’orecchio – non era lo scatolone,
rimbombate di bassi e rincretinente, portato come una cassa di patate sulla
spalla dai tamarri anni Ottanta, era una cosina elegante dal volume flebile e
dalle pile cagionevoli -.
La casa era rossa e grande – quattro appartamenti su
due piani, più uno al piano terra -, già antica in mezzo alle case nuove tirate
su, senza cura e gusto, durante gli anni del Miracolo economico; erano i tempi
in cui tutti credevano di essere diventati ricchi.
Era color rosso mattone e troneggiava in mezzo
al giardino, che veniva chiamato, per assenza di velleità, l’Orto; l’aveva
costruita, saranno stati i primi anni del Novecento, una coppia di emigranti.
Erano tornati ricchi dal Sud America e avevano reinvestito i loro denari
costruendo case e avviando un’attività di pesca; erano senza figli, lei – la
signora Gina – controllava che i muratori lavorassero svelti, passava la
giornata su e giù per i pontili del cantiere; il marito, non ricordo più il
nome, non l’ho conosciuto, quando siamo arrivati nella casa rossa era già morto
da tempo, andava per mare con la sua paranza insieme ai suoi tre pescatori.
Ricordo che l’orto era pieno di piante che ora si
definirebbero antiche. C’erano grandi siepi di aspidistra (tutte le nonne
dell’epoca coltivavano, anche solo sul davanzale, le aspidistre in grandi vasi
di coccio), una florida vite di uva “merella” ci separava dal cortile della
scuola nuova e un muro a secco chiudeva il lato verso la strada, c’erano poi
due enormi alberi di cachi (in quegli anni di modernità esasperata, un frutto
negletto e troppo legato a ricordi di povertà); i rami di un pesco, ogni
primavera, fiorivano proprio davanti alla finestra della mia camera da letto.
In un angolo nascosto dell’orto, un pozzo terrorizzava mia madre che già mi
immaginava annegato.
Nei lontanissimi anni che voglio raccontare, l’orto era
ancora usato dai tre vetusti pescatori che avevano lavorato per il marito della
signora Gina; erano rugosi e contorti come ulivi. Erano conosciuti con i loro
nomignoli: ü Gallettu, ü Sarvegu e ü Buggitappi. Non so dire da cosa erano nati
questi soprannomi, forse l’unico che consente qualche supposizione è ü Sarvegu
ma per gli altri resta il mistero.
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