giovedì 6 ottobre 2022

Appunti sulla sconfitta, 9.

"Che cosa ne pensa della società italiana?" 

"Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa."

Pier Paolo Pasolini - La ricotta - 1964.



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La piaggeria dei giornalisti di destra.

"Mandate Silvio a trattare tra Kiev e Mosca". Firma Vittorio Feltri.

L'agente Betulla, noto pennivendolo, è indefinibile.

"Prodi e Bersani: la sinistra riparte dai morti viventi".

"PARLA ROBERTO FICO

I5s sono i veri progressisti: mai più con la destra", il Fatto Quotidiano.

...e io sono un comunista di unità monarchica.

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Materiali per ragionare.


Dalla pagina Fb di Corradino Mineo.

"“Sono finiti due secoli di progresso e positivismo”. L’ho scritto più volte, evocando il dibattito sulle scienze e la filosofia. Oggi Giorgia Sureghetti torna sul tema, parlando di elezioni e politica: “Nostalgia del passato. Con la destra ha vinto la paura del progresso”, il titolo, del pezzo della ricercatrice milanese, in "prima" su Domani. “L’Italia che ha scelto il governo più a destra della storia repubblicana sembra essere stata raggiunta -scrive- da quella che Svetlana Boym, letterata di Harvard, definiva in un libro di qualche anno fa un’epidemia globale di nostalgia”. Nostalgia che ha dato il tono all’offerta politica, dal “Make America Great Again” di Donald Trump a “Reconquete”, il nome scelto da Alec Zemmour per promettere il ritorno alla grandeur francese, fino a “risollevare l’Italia” della stessa Meloni. 

Potrei aggiungere che la nostalgia dell’impero britannico ha ispirato Brexit e quella dell’impero zarista, “l’operazione militare speciale”. “L’obiettivo -scrive la filosofa- non è una rottura col passato ma con l’idea di progresso che ha sostenuto nell’ultimo secolo i progetti di emancipazione dalla disuguaglianza e dall’oppressione. Gli avanzamenti sul terreno dei diritti delle donne, delle persone lgbt, divengono, in questa prospettiva, 'eccessi' da rimuovere per consentire la rifondazione di un ordine che ha le radici in una presunta natura, in ciò che è senza tempo. Nella famiglia naturale e nella patria come grande famiglia”. Nostalgia che non risparmia -osservo- il campo progressista, perché è evidente come Serughetti dia per scontato che quei diritti si siano diffusi sulle ali dell’odiata mondializzazione. 

Che farne di tale “nostalgia”? Certo non la possiamo ignorare. In pandemia facevano paura i vaccini a RNA Messaggero. Trump e Bolsonaro gli contrapposero un disinfettante, l’idrossiclorochina.  Il Me Too inibisce le avances e disarma il sentire sessuale dei giovani maschi, senza peraltro superare, anzi in certi casi alimentando, comportamenti aggressivi e sessisti, soprattutto di gruppo. Così come l’evidenza che arriveranno sulle nostre coste sempre più africani, genera paura e razzismo, anche se abbiano più sangue turco e vichingo nelle vene che greco-romano. E la stessa solidarietà europea ai profughi ucraini, invece del fastidio o dell’indifferenza mostrata per quelli siriani o afghani, si spiega con una sorta di nostalgia per una presunta comunanza etnica.

Non se ne esce senza rifondare l’idea della scienza, dei diritti e della politica. Che non possono più proseguire, come una locomotiva sui binari, verso “il sol dell’avvenire”. Persino le categorie di spazio e tempo vanno rivisitate. Non ha molto senso parlare di pace tra Russia e Ucraina senza affrontare la questione cinese. E non si può discutere utilmente con la Cina senza rivedere le idee che abbiamo del nostro passato, senza scegliere tra crociate e Rivoluzione francese, come loro, i cinesi,  provano a districarsi nel passato, tra Via della Seta e Grande Muraglia. 

È Sinistra, scriveva Bobbio, tutto ciò che si oppone alla destra. E lo è anche l’idea di 'uguaglianza' contro la difesa di primazie e privilegi. Ma una sinistra che dica semplicemente “voi siete contro e noi difendiamo il progresso, voi per il nord e noi per il sud, voi per il profitto noi per l’assistenza”, sarebbe destinata a perdere. Come ha perso l’ottimo Corbyn nel Regno Unito. Per vincere serve ripensare la storia, riconoscere che la “natura umana”, natura storicamente determinata, non si cambia con un atto di volontà, con l’imposizione di un “politicamente corretto” e, comunque, non nel volgere di qualche anno. E ricordare che gli sfruttati sono spesso complici degli sfruttatori e che il riscatto dallo sviluppo ineguale deve riguardare il sud come il nord.

Basta filosofia, per oggi. A chi preferisce 'i fatti" piuttosto che "le idee" segnalo che Liz Truss ha fatto marcia indietro: niente taglio delle tasse ai ricchi. E che Confindustria, sempre pronta a correre in soccorso del vincitore, ha preso le distanze da Lega e Forza Italia, oltre che dal Movimento 5Stelle: non vuole sentir parlare di Flat Tax,  pensionamenti precoci o scostamenti di bilancio.".


Tre post Fb di Alessandro Gilioli.

"Da vecchio vorrei fare come D'Alema, cioè accusare tutti gli altri delle stesse cazzate che nella vita ho fatto anch'io - e pigliandomi così una gran bella figura.".

"Ho sempre alcune perplessità su manifestazioni pacifiste che partono dal ceto politico anziché dai corpi sociali.

Detto questo, è un fatto che Conte ha di nuovo visto una enorme stanza vuota e l'ha occupata perché gli altri erano altrove  (proprio come nei due mesi di campagna elettorale).".

"Se proprio vogliamo parlare di rappresentanza partitica della sinistra partiamo dalle basi fornite dai dati di realtà.

A) c'è un partito che ha anche solide radici di sinistra ma sempre più lontane nel tempo e che da tempo le ha tantissime volte tradite nei comportamenti e nelle scelte, ma anche nella scelta del suo establishment; ottiene ancora molti voti di sinistra soprattutto per inerzia.

B) c'è un altro partito che ha radici tutte diverse e anzi rivendicava di essere oltre destra e sinistra, mai radicato nei corpi intermedi e nell'associazionismo di base, che ha fatto tuttavia alcune battaglie di sinistra pure vincendone alcune (Rdc, acqua pubblica...) ma anche cose molto di destra (decreti sicurezza...) e che a un certo punto, pochi mesi fa, trovandosi in totale crisi di identità ha deciso di interpretare la sinistra, ottenendo così di incamerarne una parte dell'elettorato.

C) Ci sono un paio di piccoli partiti un po' più radicali che entrano ed escono dall'orbita del partito A e vorrebbero fare da ponte col partito B  ma cambiano nome della lista a ogni turno elettorale, spesso proponendo le facce del ceto politico delle liste precedenti che avevano nomi diversi, talora superando la soglia di sbarramento e talora no, ma mai riuscendo a uscire dalla stessa eterna nicchia che si aggira attorno al tre per cento quale che siano gli addendi e quale che sia il nome scelto per l'occasione.

Questo il quadro partitico, grosso modo, di cui prendere atto, credo. 

Poi c'è la sinistra non partitica, insomma noi qui sotto, che vale circa metà dell'elettorato, almeno potenzialmente, ma non è stranissimo che sia un po' confusa dispersa e stanchina, il giorno del voto, per via della situazione partitica di cui sopra di a, b e c, rispetto ai quali magari decide in parte di astenersi.".


Massimo D'Alema, Italianieuropei, 4 Ottobre 2022.

Io lo ho trovato online qui e qui.

"DOPO LA SCONFITTA LA RINASCITA DI UNA COMUNITÀ POLITICA 

La destra ha vinto. Era un risultato atteso, ma non per questo meno scioccante per tanta parte del nostro paese e della opinione pubblica internazionale. La vittoria della destra non è il frutto di una travolgente onda di consenso popolare. La coalizione guidata da Giorgia Meloni ha raccolto esattamente la stessa quantità di voti che aveva raccolto nel 2018. Ma ci sono tre differenze importanti.

Anzitutto, che il consenso si è concentrato su Fratelli d’Italia, che ha compiuto un balzo dimezzando la consistenza di tutti i suoi alleati. In secondo luogo, la frammentazione del campo politico avverso ha favorito la vittoria dei candidati del centrodestra nella stragrande maggioranza dei collegi. Infine, la riduzione drastica del numero dei votanti ha fatto crescere in modo significativo le percentuali anche quando non sono cresciuti i voti. Il risultato è che la coalizione che governerà il paese poggia sul consenso espresso da una quota pari a circa il 28% dell’elettorato. Questo accade anche in altri paesi ed è il sintomo di una profonda crisi dei sistemi democratici. Tuttavia in Italia non era mai accaduto che una maggioranza parlamentare così forte poggiasse su un consenso espresso così ridotto. Questo non mette in discussione la legittimità della vittoria e quindi del mandato a governare. Tuttavia consiglia al vincitore una certa prudenza e una attenzione alla ricerca di convergenze e di consensi.

Ciò che è indubbiamente vero è che la destra ha vinto politicamente, e in particolare Giorgia Meloni è stata in grado di rimettere insieme, senza particolari scossoni, una coalizione che è stata divisa su opposte posizioni di maggioranza o di opposizione per quasi tutta la legislatura. Dall’altra parte il centrosinistra e, in particolare il PD, ha consumato una sconfitta non solo elettorale, ma anche politica, non essendo riuscito a rimettere insieme forze con le quali ha collaborato ininterrottamente almeno negli ultimi tre anni della legislatura. Le forze politiche che rappresentano ciò che fu chiamato “campo largo” e che avevano sostenuto il governo Conte che fu chiamato “giallorosso”, hanno raccolto consensi che, sommati, hanno largamente sopravanzato quelli del centrodestra. Quella coalizione, quel governo che, ricordo, affrontò in modo efficace la sfida della pandemia e rappresentò con successo gli interessi italiani in Europa, avrebbero potuto rappresentare un argine e un’alternativa alla destra.

Questo argine è stato demolito, non solo dal sabotaggio interno, ma da una azione di logoramento che ha dimostrato, attraverso una martellante campagna dei mezzi di informazione, tutto il fastidio che il potere economico aveva nei confronti di quella alleanza e di quella leadership. Il Partito Democratico, contrariamente ai suoi stessi interessi, non ha fatto pressoché nulla per contrastare tutto ciò e per difendere e consolidare una relazione unitaria pure nel corso della esperienza di un governo di larghe intese intorno al quale, nel sostegno a Draghi, si erano ritrovate insieme le stesse forze politiche che avevano governato precedentemente. Quando poi questa azione di logoramento è arrivata al suo epilogo, si è scelto di non fare nulla per ricostituire una coalizione competitiva di fronte all’incombere delle elezioni. Era evidente che si era manifestato un dissenso e una frattura, ma mentre nel campo del centrodestra sostenitori e oppositori di Draghi si sono trovati agevolmente insieme, da questa parte Draghi è stato il discrimine sulla base del quale si è chiuso ogni dialogo con Giuseppe Conte e il Movimento 5 Stelle. Eppure questo rapporto era fondamentale per il PD, anche per allargare le basi sociali di un centrosinistra che appare sempre più ristretto nella rappresentanza dei ceti medi urbani e che, invece, con Conte avrebbe potuto puntare a un consenso popolare in quei ceti sociali più deboli che il PD non appare più in grado di rappresentare. Il PD si è mosso in una direzione opposta rispetto a quella dell’allargamento di una coalizione sociale. Ha cercato un’alleanza con Calenda che avrebbe probabilmente avuto come effetto un’ulteriore caduta elettorale per i democratici e avrebbe spinto Conte al 20%. Letta ha avuto la fortuna di non riuscire nei suoi intenti. Il risultato è stato che il centrosinistra si è presentato così privo di una proposta politica di governo che non fosse l’opposizione alla destra e, in sostanza, la continuità dell’esperienza Draghi, proclamata dal Terzo Polo, suggerita di fatto dal PD.

L’Italia, o almeno quella parte del paese ancora disposta a partecipare, si è mossa nella direzione esattamente contraria. Voleva un ritorno della politica (o del populismo come dice qualcuno), non certo la continuità della tecnocrazia. L’elettorato ha premiato le forze politiche e i leader che ha considerato i più lontani dall’establishment economico e finanziario, nazionale e internazionale. Ha scelto la politica e in particolare ha fatto vincere il più tradizionale tra i partiti politici, quello più esplicitamente radicato nel suo passato, quello che, a dispetto di vent’anni di nuovismo, appare il più novecentesco possibile.

Certamente la destra ha vinto anche sulla base di promesse non facili da mantenere, ma non ci si può stupire del populismo che è in fondo l’altra faccia della tecnocrazia, essendo tutti e due aspetti di una crisi della politica democratica. Difficile sconfiggere il populismo sulla base della difesa della buona amministrazione e dello status quo. Se non si mette in campo un progetto politico, una risposta forte al bisogno di protezione, di giustizia sociale, di diritti; se non si è in grado di suscitare una speranza di riscatto, in particolare nella parte più debole della società, si è destinati a perdere.

Per chi abbia a cuore il destino della sinistra e, più in generale, della democrazia italiana, diviene ora molto importante capire quale discussione si aprirà nel Partito Democratico. Si tratta finalmente di fare una discussione seria sulle scelte politiche compiute non solo in questi mesi ma nel corso di questi anni. Nessuno di noi ha passione per il rito delle autocritiche, ma il problema è che senza fare chiarezza su ciò che è stato giusto e ciò che è stato sbagliato nel passato, è difficile riguadagnare credibilità. Lo si è visto anche nella campagna elettorale: quando il PD ha levato la sua voce giustamente critica verso l’orrore della legge elettorale e ha giustamente sottolineato quanto sia pericolosa la pretesa di imporre il cambiamento delle regole a colpi di maggioranza non ha potuto trovare ascolto in quanti ricordano benissimo che quella legge elettorale fu fatta dal PD e imposta con la inusitata decisione di porre il voto di fiducia al governo. Insomma, la riflessione dovrebbe essere seria, approfondita, allo scopo di aprire, credibilmente, una fase nuova. Ma c’è qualcosa di più profondo che riguarda la costituzione materiale, la cultura politica e i legami con la società di questo partito. Sembra quindi venuto il momento di fare un bilancio a circa quindici anni dalla nascita del Partito Democratico per andare a un congresso che non sia una resa di conti tra dirigenti, ma l’occasione per ridefinire i fondamenti e la funzione nazionale di una comunità politica.".


Post Fb di Gianfranco Manfredi.

"Si può pensarla come si vuole delle BR, ma che Grillo le evochi come Brigate del Reddito è una cosa schifosa, sia per chi si batte per il reddito di cittadinanza, sia per chi sa quale sia stata la storia delle BR. Ridurre la storia politica italiana a farsa è una cosa abominevole anche per un comico, figuriamoci per un comico che è anche fondatore di un movimento. Qualcuno ha fatto paralleli tra Zelensky e Grillo, stante la loro comune origine di commedianti, ma se l'Ucraina avesse avuto come leader Grillo oggi sarebbe stata già spazzata via. Grillo è l'incoscienza politica personificata. Uno dei personaggi più meschini e miserabili prodotti dalla nostra storia politica e di spettacolo. Silente sotto le elezioni, sbraitante dopo. Basterebbe questo a farne capire la statura.".


Piero Graglia, Fb.

"MELONI IN CAMPO

Parlando all'assemblea della Coldiretti Giorgia Meloni ha dato un assaggio della sua linea di governo. Una linea che, per quello che è possibile capire da un discorso isolato, presenta enormi punti interrogativi ma, soprattutto, segnala l'ignoranza delle questioni che vuole affrontare. Nello specifico, l'agricoltura. 

Relativamente a questo ambito, Meloni allinea una serie di luoghi comuni triti e ritriti che ormai sono stati ampiamente smontati dalla storiografia meno "ideologica" (quella, per intendersi, contraria alla lettura "poverina l'Italia calimera, sempre piccola e nera"): la storiografia delle opere di Francesca Fauri, o di Giuliana Laschi, ad esempio. Opere che dimostrano che la diplomazia italiana, alla pari di quella francese, seppe proteggere gli "interessi nazionali" in maniera efficace, semmai rallentata e ostacolata da interessi sezionali in patria, che premevano perché i negoziati fossero concentrati su determinate filiere e non svolti in maniera complessiva per tutto il comparto agroalimentare.

In altre parole, la difesa dell'interesse nazionale non lo scopre oggi Meloni, muovendosi in uno scenario di abbandono e dimenticanza, ma trova già attivi presidi di interessi protetti - e bene - a livello comunitario e poi unionale.

Un altro punto sostenuto da Meloni è la "protezione della qualità" (ovviamente italiana). Ebbene, dovrebbe sapere che il marchio DOP (denominazione di origine protetta) non è stato inventato in Italia, bensì è contenuto nella normativa europea (regolamento UE n. 510/2006) che ha definito cosa si intende per prodotto DOP, lasciando poi spazio ad articolazioni "nazionali" di ulteriore tutela (come ad esempio la DOCG per i vini). Il regolamento infatti definisce la «denominazione d'origine» come "il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata".

E con questo anche il problema della "protezione della qualità dovrebbe essere discorso già affrontato a livello europeo, dove secondo Meloni gli interessi italiani (anzi, "nazionali") non vengono protetti.

E poi il terzo elemento del suo discorso, la sovranità alimentare.

Qui si tocca con mano la pochezza di una "nuova" (?) classe politica che non sa di cosa parla ma parla per slogan, con buona pace dell'accusa di ideologismo che Meloni stessa lancia agli avversari che avrebbero abbandonato l'agricoltura a se stessa in nome di una "globalizzazione senza regole".

Non sa, infatti, che il sistema europeo (la "PAC" o Politica Agricola Comune) è sin dalle origini un concentrato di protezionismo agguerrito, odiato dai Paesi in via di sviluppo (altro che globalizzazione senza regole...), fondato sul mantenimento di "prezzi ragionevoli" (che non vuol dire prezzi bassi, ma buoni per produttori e consumatori) e di tutela e sussidi ai produttori. Un sistema vorace, che costava e costa tantissimo al bilancio dell'Unione, inventato a suo tempo da francesi e italiani in primis, per sostenere il consenso alle forze moderate al governo e controllare l'indice dei prezzi al consumo. Senza entrare in tecnicismi esasperati, la domanda di beni alimentari (al 100% agricoli) è una domanda rigida, che cambia poco al variare del reddito, ecco perché controllare i prezzi agricoli è importante a livello della domanda finale e per l'indice dei prezzi al consumo complessivo.

Ma no, Meloni non lo sa, ignora questo piccolo particolare, o almeno fa mostra di ignorarlo, e lancia la "sovranità alimentare" che è una boiata pazzesca, buona per una platea di "rentiers" livorosi, quando tutta la fortuna della PAC comunitaria è stata costruita sulla divisione del lavoro produttivo tra Paesi della CEE (e solo loro!) con capacità e caratteristiche differenti. Altro che "sovranità alimentare". E infatti Meloni si lascia scappare la negazione che si tratti di una nuova "autarch..." (non finisce la parola), ma di fatto questo è: rivendicare il diritto di produrre qualsiasi cosa, anche ciò che non conviene alle caratteristiche del territorio e alla sua cultura locale.

Come prima prova è pessima, e a poco vale la parte finale del discorso, forse l'unica condivisibile in parte, sulle catene di approvvigionamento che ci rendono "dipendenti da tutti per tutto". Anche gli altri Signora, sono nelle stesse condizioni, che crede? Forse la soluzione sarebbe integrazione ulteriore dei mercati e delle filiere produttive a livello europeo invece che il "sovranismo alimentare", che ne pensa?

Insomma, una prima prova pubblica pietosa, buona per una platea di agricoltori e produttori, ma con un senso dell'interesse generale (ovviamente "nazionale" pure quello) bassissimo.". 

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