C'è una nuova strega per la nostra destra becera: Rula Jebreal (che, tocca ammetterlo, presume di essere molto intelligente ma, forse, non lo è).
Libero:
"Che infamata
Cara Rula, ma sei scema?".
Il Giornale:
"LA SINISTRA CADE SEMPRE PIÙ IN BASSO
Usare il padre per infangare Giorgia
Il nuovo record di oscenità di Rula".
La Verità:
"Rula scava nel fango pur di attaccare la Meloni, ma stavolta si vergognano persino i suoi amici".
Ci sarebbe, come strega da mettere al rogo, anche Letizia Moratti ma lei è più "rinnegata" (do you remember Karl Kautsky?).
*
Materiali per ragionare.
Un post Fb, forse un pochino ingenuo, di Soumaila Diawara.
"È possibile in Italia organizzare una conferenza nazionale di tutte le forze di sinistra e progressiste?
Credo che sia giunto il momento in cui dobbiamo avere il coraggio dopo questa sconfitta di sederci parlare e capire come proporre qualcosa di decente.
Partendo dal lavoro, scuola, sanità, ambiente, diritti civili e sociali. Una politica di uguaglianza, una guerra alla povertà non ai poveri.
Oltre a creare un’opposizione forte nel parlamento bisognerebbe anche crearla fuori dal parlamento implicando e responsabilizzando la società civile soprattutto i giovani con una formazione politica.
Oggi se c’è un narcisismo crescente ed un egocentrismo incommensurabile all’interno delle forze politiche di sinistra, nonché la mancanza di una vera e seria formazione politica delle persone che non pensano più alla collettività.
È il momento di guardarci in faccia e dirci la verità lasciando il nostro ego, le nostre differenze per costruire una vera forza progressista nazionale, europea ed internazionale.
Abbiamo una responsabilità e dobbiamo assumerla, la dobbiamo per i lavoratori, per poveri per tutte le persone che soffrono per mancanza dei diritti basilari. Se non la facciamo, saremmo di fronte alla storia e difiniti quelli che non riescono a unirci per il loro ego.
Ora o mai…".
La Stampa, 30 Settembre 2022. Francesca Schianchi.
ROMA. «La sconfitta del centrosinistra ci accomuna tutti e viene dal lontano». Parte da questo assunto l’appello diffuso ieri da venti personalità del mondo cattolico, ex Pd, intellettuali considerati vicini al M5S, da Domenico De Masi a Tomaso Montanari. Un invito ad aprire «un nuovo cantiere», spiega una delle promotrici, la ex presidente del Pd Rosy Bindi, che ricostruisca la sinistra.
Per trasformare in opportunità, dite voi, una sconfitta comune che viene da lontano. Da dove, secondo lei?
«Non c’è stata condivisione di un progetto politico che unisse ai valori del nostro campo la cultura di governo. E che sapesse interpretare l’esigenza di un radicale cambiamento che la situazione impone».
Detta più semplicemente?
«Vede, da una parte il Pd ha preferito rimanere al governo anche in momenti in cui sarebbe stato meglio andare a votare…».
Per «malinteso senso di responsabilità quando non per brama di potere», scrivete.
«Io penso più spesso per senso di responsabilità. Ma questa scelta l’ha consegnato a un’afasia: così facendo, il Pd non si è mai dedicato a se stesso. Prendiamo la scalata renziana: mai è stata elaborata. C’è una classe dirigente che mi sono chiesta spesso perché stia insieme».
Poi ci sono i Cinque stelle, che si autodefiniscono il vero punto di riferimento dei progressisti…
«Questo potrebbe essere un rischio. Io sono contenta se sono approdati al campo progressista, e spero non sia solo una mossa tattica. Ma nessuno può vantarne il monopolio».
Quindi la proposta qual è?
«Essere tutti pronti a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento dell’esistente, per costruire un campo progressista coinvolgendo quelle realtà sociali che già interpretano il cambiamento e non trovano rappresentanza politica».
Sta pensando allo scioglimento del Pd?
«Sì. E ci risparmi la resa dei conti interna, perché la ritualità del congresso è ormai accanimento terapeutico».
Già ci sono nomi in campo.
«Ci evitino questo spettacolo».
Voi scrivete che è stato un errore andare divisi. Ma di chi è l’errore?
«Quando Letta divenne segretario, mi permisi di dargli un consiglio: il Pd sostenga con lealtà il governo Draghi, ma non si dica al Paese che questo è il nostro governo».
L’esatto contrario di quel che ha fatto Letta.
«Il Pd non doveva identificarsi con l’agenda Draghi, ammesso che sia mai esistita, perché si trattava di un governo di larghe intese. Bisognava garantire lealtà, sì, ma guardando al futuro. Come sulla guerra: non doveva esserci nessun dubbio da che parte stare, ma come starci forse sì, per esempio rivendicando l’autonomia dell’Europa nell’Alleanza atlantica. Se ti appiattisci sul governo Draghi, è naturale che non puoi fare alleanze con chi lo fa cadere».
Mi pare dia la responsabilità al Pd.
«Errori ne sono stati fatti un po’ da tutti, ma forse il partito principale ha qualche responsabilità in più… Dopodiché è vero anche che Conte e il M5S non erano portati a fare un accordo, perché troppo interessati alle sorti del proprio partito».
E il rapporto con Calenda?
«Nel nostro appello, Calenda non è un interlocutore. Anche se spero che tutti capiscano l’importanza di una opposizione unitaria: la maggioranza esiste anche nei Paesi non democratici, l’opposizione solo in democrazia».
Dà un giudizio severo del segretario Letta, o sbaglio?
«In realtà sono più severa con i suoi predecessori. Ho apprezzato lo stile con cui non ha abbandonato il campo, con un fax come Martinazzoli o a male parole come Zingaretti. Ma non apprezzo l’idea che sia sufficiente accompagnare il Pd a un congresso ordinario».
Intanto cosa si aspetta dal governo Meloni?
«Prima di tutto che si ricordino che non sono maggioranza nel Paese. Leggo che ritengono vecchia la Costituzione: mi piacerebbe chiedere loro se sanno quanti anni ha la Costituzione americana. Da questo governo mi aspetto un ancoraggio all’Europa, e parole chiare sulle intemperanze di una parte del loro mondo».
A cosa si riferisce?
«Non credo sia stato corretto in campagna elettorale sbandierare la paura dei fascisti, ma certe frange estremistiche spero siano tenute a bada. Io però non ho paura del passato, sono preoccupata del futuro: fisco, scuola, sanità».
Meloni sarà probabilmente la prima donna a Palazzo Chigi. Un tetto di cristallo rotto dalla destra, mentre nel Pd meno di un terzo degli eletti è donna…
«Mi rammarico che ancora una volta il Pd abbia usato in maniera cinica la legge elettorale per eleggere solo un terzo di donne. A Meloni riconosco di essersi fatta da sola, e di aver dimostrato che se le donne vogliono spazi, in politica, se li devono conquistare. Detto questo, però, a una donna al potere di cui non condivido le idee, preferisco sempre un uomo di cui condivido le idee».
Micromega, 27 Settembre 2022. Pancho Pardi.
Responsabilità e conseguenze di un voto disastroso
Paradosso ma non troppo. Il voto per il Parlamento appena concluso, disastroso per gli elettori di centrosinistra, ha almeno un aspetto positivo: d’ora in poi nessuno potrà più sentirsi costretto a difendere il PD. Nessuno si sentirà più obbligato a dimenticare ciò che il PD gli ha fatto subire nel solo ultimo decennio: l’erosione dei diritti del lavoro con il Jobs Act, la riforma costituzionale sgangherata del 2015, la legge elettorale Italicum che l’accompagnava (per fortuna mai applicata e poi riconosciuta incostituzionale), la mancata sostituzione della Legge Gelmini sull’istruzione, la “grande riforma” della trasformazione dei Forestali in Carabinieri, tante chiacchiere sullo ius soli e lo ius scholae ma niente legge in merito, e infine la nuova legge elettorale Rosatellum imposta con voto di fiducia, che oggi si ritorce sui suoi autori condannandoli alla sconfitta. È almeno dal tempo dei Girotondi (era il 2002!) che il PD ha solo fatto finta di ascoltare critiche e proposte che salivano dalla società ma si è sempre guardato dall’accoglierle, intento solo alla sua autoconservazione sempre più scadente. Ora che questa è giunta sulla soglia della dissoluzione nessuno può sentirsi obbligato a dare il suo sostegno a un soggetto che non è in grado di sostenersi.
Il PD, che a suo tempo l’ha imposta, sapeva bene che il Rosatellum è una legge dal marcato carattere maggioritario. Che fa sbiadire il ricordo dell’articolo 48, secondo comma: “Il voto è libero e segreto, personale ed eguale”. Non solo non è più eguale, è stato reso drammaticamente diseguale e attribuisce a chi vince un enorme premio di maggioranza occulto. Il PD, che conosceva bene la sua creatura, ha invece ha affrontato il voto con una irresponsabile logica proporzionalista. Ma se davvero voleva una legge proporzionale non doveva farsi infinocchiare dai 5 Stelle che dopo aver ricevuto il suo voto favorevole alla riduzione dei parlamentari non hanno mantenuto la promessa di scrivere insieme una legge proporzionale. È vero: nella mancanza di una coalizione di centrosinistra la responsabilità non è solo del PD. I 5 Stelle hanno fatto cadere il governo Draghi e hanno così alzato un muro contro il PD: non si può imputare al solo Letta la mancata alleanza tra i due partiti. Con il neo partito di Calenda e Renzi l’alleanza (che limitata a questi sarebbe comunque stata insufficiente) è stata stracciata per loro volontà dopo due giorni. Calenda per altro ha anche ucciso nella culla la lista di Bonino (e sono altri 2,9% di voti buttati via). Insomma: l’unica coalizione in grado di contendere il successo alla destra doveva a tutti i costi tenere insieme tutte le forze che sono invece andate separate, per responsabilità di tutte nessuna esclusa. Così, come se fossero elezioni col sistema proporzionale i partiti che si considerano non di centrodestra si sono avviati al voto in concorrenza tra loro invece che contro un avversario non concorde ma capace di presentarsi unito. Non potevano che essere sconfitti. Sarebbe stata meraviglia il contrario.
Il secondo effetto del voto è che d’ora in poi gli elettori di questa parte possono smettere di sognare un autentico partito di vera sinistra. Non si vede chi potrebbe esserne il promotore. Ma se anche a qualcuno, chissà, riuscisse di metterlo in piedi non è ragionevole pensare che possa andare molto al di là del 3%. Anche a farselo piacere a tutti i costi il sogno di un Melenchon italiano risulta malinconico e inefficace. Non sarà mai lo strumento decisivo per il successo elettorale. Al massimo potrà aspirare a svolgere un ruolo di stimolo su un centrosinistra del tutto e profondamente rinnovato, se ma ci sarà. Ora, in mancanza di altro, c’è chi inclina alla tentazione di trovare l’embrione centrale della nuova sinistra nei 5 Stelle, rigenerati dalla perdita di sei milioni di voti e dal trasformismo adottato da Conte tra luglio e settembre. C’è sempre un fantasma di sinistra a cui guardare per illudersi.
Non abbiamo alcun bisogno che FdI ci renda “orgogliosi di essere italiani”. Saremmo stati molto più orgogliosi se avessimo potuto impedire la sua vittoria. Con il voto diretto nei referendum del 2006 e del 2016 eravamo riusciti a cancellare lo stravolgimento della Carta. Ma già il cedimento popolare nell’ultimo referendum sulla riduzione dei parlamentari avrebbe dovuto metterci sull’avviso. L’adagio qualunquista i parlamentari sono un peso inutile quindi meno sono meglio è ha stravinto ed era l’avvisaglia del voto di oggi. Nei prossimi cinque anni ci attende la battaglia pubblica per impedire nuovi danni alla Costituzione e per immaginare, disegnare, costruire una coalizione in grado di contendere il successo nelle prossime elezioni politiche. Ma sarebbe ingenuo pensare di cavarsela con le virtù dell’associazionismo spontaneo e la sua capacità di fornire suggerimenti e idee. Costruire un organismo politico forte e capace di durare richiede impegno personale e collettivo, faticoso e tenace. I partiti non si fanno da soli. E le coalizioni tanto meno.
Micromega, 27 Settembre 2022. Pierfranco Pellizzetti.
E se fosse solo il solito gattopardismo tinto di nero?
Caos calmo o imprevisto prevedibile? Il risultato elettorale balzato fuori dalle urne del 25 settembre si direbbe l’apoteosi dell’ossimoro: la Meloni conferma le previsioni e stravince; ma nel contesto di una destra altamente instabile, con Salvini che incassa la metà dei consensi di cui era accreditato (e la mina vagante Berlusconi, dato per l’ennesima volta defunto, risorge dal sacello). Per cui la leader di Fratelli d’Italia si ritrova a dover fare i conti, prima ancora delle incombenti questioni di governo, che vanno dalla crisi energetica a quella sociale ed economica, con la bomba a orologeria rappresentata dalla furia egolatrica dei due partner, elettoralmente e politicamente ridimensionati eppure irrimediabilmente capricciosi: la pretesa strombazzata da Matteo Salvini di riottenere il Ministero degli Interni; quella di insediarsi alla presidenza del Senato (anticamera per la Presidenza della Repubblica) avanzata come un diritto incontrovertibile dal Nosferatu di Arcore.
Sul fronte dell’opposizione il PD si conferma primo partito, ma nel modo peggiore possibile. Intanto la Bonino scompare mentre Calenda e soci di Azione-Italia Viva, dal basso del loro 7,7%, il tanto vagheggiato risultato a due cifre se lo scordano. Luigi Di Maio, l’Houdini di Pomigliano d’Arco, precipita nella sua cassa a doppio fondo da llusionista, mentre i Cinquestelle di Conte, desaparecidos annunciati, diventano in rimonta la vera Terza Forza della politica italiana.
Alla luce dei risultati numerici (centro-sinistra 25,5%, 5S 15,4%, Calenda &C. 7,7% = 45,9 complessivo; a fronte del 44% raggiunto dalla destra), va ribadito (a futura memoria) che se l’opposizione avesse varato il “campo largo”, predicato da Pierluigi Bersani, Goffredo Bettin e altri ragionevoli analisti insieme a Paolo Flores d’Arcais, non ci avrebbe consegnati incaprettati mani e piedi a una premier selezionata e cresciuta nella cantera del Fronte della Gioventù, la palestra giovanile missina.
Resta la soddisfazione – tutto sommato modesta – di esserci liberati, insieme a un po’ di peones, grazie alla sfoltitura dei seggi parlamentari, anche di alcune presenze tanto per esserci, sopravvalutate e sostanzialmente moleste; gente particolarmente versata nel far perdere tempo con la loro ansia di protagonismo: l’ultra sponsorizzato dallo star system vetero-sinistro (Jean-Luc Mélenchon, Pablo Iglesias, Jeremy Corbyn) Luigi De Magistris, rimasto fermo all’1,4% con la sua “Unione Popolare”, Gianluigi Paragone nell’imitazione padana della Brexit, inchiodata al 2%, e senza dimenticare il rieccolo Marco Rizzo, la cui “Italia sovrana e popolare” ribadisce il proprio peso all’1%. L’apoteosi dell’inutilità narcisistica. Cui si aggiunge la mattanza dei furbetti maldestri: i vari scissionisti ex Cinquestelle turlupinati dal magliaro Di Maio (tra cui Vincenzo Spadafora, Laura Castelli e Lucia Azzolina) che speravano di sfangare il vincolo del doppio mandato e ora si ritrovano a spasso. Non meno da compiangere delle Veneri di Forza Italia alla ricerca di nuovi set: Mara Carfagna, la Hedy Estasi Lamarr di Salerno, che ora ha una ragione in più per sgranare gli occhioni estatici davanti al misero 6,4% incassato nel collegio uninominale di Fuorigrotta (poi salvata in extremis grazie al corso recupero rimandati del proporzionale); la geografa Mariastella Gelmini, pronta a raccogliere l’invito del National Geographic per esplorare il tunnel di collegamento tra il Gran Sasso e il Cern di Ginevra di cui è la ben nota scopritrice.
Ma ora si sente dire che queste elezioni segnano un passaggio storico nella storia nazionale. E perché? Perché una frequentatrice da tre lustri dei Palazzi della politica romana diventa Presidente del Consiglio in una situazione altamente problematica e che rischia di stritolarla appena mette piede a Palazzo Chigi? Sicché è presumibile che vorrà ripartire i rischi del governare mediante una qualche forma di ammucchiata all’insegna del tutti insieme appassionatamente. Anche perché lei stessa – presumibilmente – si rende conto che razza di armata Brancaleone sia il personale politico che le fa da corona (da Ignazio La Russa a Daniela Santanché); da cui non può attendersi il benché minimo supporto.
Al tempo stesso, pensiamo sul serio ipotizzabile che un periodo di opposizione (come non ha mai sperimentato) possa far essudare al PD gli umori maligni che l’affliggono? Allora vuol dire che non si è capito quale sia la sua reale natura: non un partito, bensì il comitato che gestisce un patrimonio elettorale e un capitale di potere in costante contrazione; team costituito da una ristretta oligarchia notabilare di modesto livello (Dario Francescini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando), alla faccia dell’ingrigito popolo boccalone che ancora se la beve.
Insomma. E se, invece dell’annunciata svolta storica, fossimo in presenza della solita saga del gattopardo, ripitturata di nero?


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