Scusate il ritardo, mi sono preso qualche giorno di pausa, non avevo antiemetico in casa.
I fogli lerci della Destra nostrana incominciano a preoccuparsi.
Libero:
"Lite nel Centrodestra
NON FATE SCHERZI
Non c'è ancora un accordo sulla formazione del governo
Occhio, così si rischia una falsa partenza".
il Giornale:
"LEGISLATURA AL VIA TRA LE TENSIONI
VIETATO PARTIRE MALE
Centrodestra, ancora non c'è l'accordo su presidenti delle Camere e ministri
Meloni: 'Governo politico'. Ma un inizio litigioso sarebbe imperdonabile".
La Verità:
"IMPAZZA LA GIOSTRA DEL TOTO MINISTRI MA DAVVERO CE NE SERVONO COSÌ TANTI?".
*
Che parabola imbarazzante: Giovanni Lindo Ferretti in prima pagina de La Verità.
Materiali per ragionare.
Due post dalla pagina Fb di Corradino Mineo.
"Diciamolo, il Pd porta sfiga. Da quando fu fondato niente più è andato bene per la metà del paese che non vuole le destre. O, almeno, il Pd non è riuscito a offrire un racconto sensato di quel che accadeva, a fissare un punto da cui muovere verso il futuro. Nel 2007, nata di nascita, a Palazzo Chigi Prodi, al Quirinale Napolitano, presidenti delle Camere Marini e Bertinotti. Chi vince piglia tutto. Da questa geometrica potenza nacque il veltroniano “partito a vocazione maggioritaria”. Ma Berlusconi non era sconfitto. Usò un’inchiesta giudiziaria (con l’arresto della moglie) per staccare Mastella da Di Pietro e Prodi, usò la sfiducia votata anche dal comunista Turigliatto, ci aggiunse del suo, conquistando De Gregorio, e il governo cadde.
Il Pd riunì 14 milioni di voti, ma suo “principale avversario”, 17. Due anni dopo Veltroni chiese scusa, disse di non essere riuscito a vincere “l’Italia del Gattopardo” e si dimise. Altri due anni dopo (quasi 3) si dimise pure Berlusconi, assediato al Quirinale da una folla ostile. Ma Napolitano non volle elezioni. Insediò a Palazzo Chigi Monti, con il mandato di sanare i danni della destra con tagli delle pensioni e del reddito del ceto medio. Quando infine si andò al voto Bersani giurò: “mai con Berlusconi”. Ma 8 milioni di italiani, era il 2013, scelsero il “vaffa” anticasta di Grillo. I 101 votarono contro Prodi Presidente. Napolitano, accettò un secondo mandato e impose governi Pd-Berlusconi, poi Pd-Alfano. Perché riteneva che i 5S fossero una riedizione dell'estremismo anni 70.
La “vocazione maggioritaria” ebbe un sussulto con il golpe interno che proiettò a Palazzo Chigi un tale Renzi, che ridusse i diritti dei lavoratori e scrisse una Costituzione il cui vero fine era l’elezione diretta del primo ministro e, in dono, un gruzzolo di parlamentari per governare a piacimento. Progetto sconfessato da 19 milioni di italiani. Ma Renzi restò segretario perché il Pd governava ancora, con Gentiloni. E pose la fiducia su una legge elettorale che affidava al segretario il diritto di scegliere i parlamentari. Così le elezioni 2018 le vinsero i 5Stelle e la Lega. Il Pd cambiò il segretario, non la politica.
E, quando Conte ruppe con Salvini, fu felice di tornare al governo. Pazienza se Renzi si portò i suoi fidi, con cui poi ricattare il Conte2. Zingaretti non ottenne una alleanza stabile coi 5Stelle. E ciò permise a Italia Viva di togliere la spina al governo giallo rosso senza rischiare il voto. Mattarella frenò le destre (che forse avrebbero vinto) e volle Draghi a Chigi. Ma Conte, quel governo lo subì, il Pd ne fu entusiasta. Così quando Conte, non votò la fiducia, per recuperare parte dei consensi che il Movimento andava perdendo, Letta cercò di imbarcare Calenda e Renzi. Respinto, si fece bastare Bonelli, Bonino, Fratoianni. Quasi solo, chiese voti niente meno contro il fascismo.
Che ne dite? Un partito con la forma dell’acqua, che riempie buche e fossati, senza spiegare perché. Che ha governato 13 anni sui 15 della sua vita. Senza aver vinto un’elezione. Che ha teorizzato il “campo largo” contro le destre ma è rimasto solo. Eppure, il Pd -ha ragione Canfora, sul Fatto- “ha mantenuto la percentuale del 2018”. Mentre Forza Italia, Lega e Movimento hanno perso hanno più che dimezzato il loro peso. Ma ha ragione Cuperlo a mettere il dito nella piaga: “ha vinto una destra sociale che non si sconfigge solo opponendole una sinistra delle libertà. Ha vinto con l’arma più potente della politica, che è l’ideologia, promettendo sostegno a ceti impoveriti e legittimando il pensiero reazionario. Noi (il Pd) abbiamo perso negli ultimi 10 anni”. Proposte dell’ultima ora, come il no agli “stage” gratuiti, al lavoro sotto ricatto dei giovani, non soni state credute. I “Tempi moderni” -li chiama Biani- dei rader in balia di un algoritmo, la paura della guerra, la necessità dell’Europa ma l’evidenza della sua crisi non hanno trovato un racconto. E del Pd resta l’immagine dei troppi galli che si vedono segretario, delle correnti, che sono solo cordate di interessi, delle parlamentari che si affannano a denunciare il torto fatto loro dal Pd piuttosto che rappresentare l'insulto nel mondo che subiscono le donne.
È la seconda forza per voti. Ma per battere la prima, dovrebbe trovare una politica, riunire le sinistre, parlare a chi teme il domani. Fare quello che non gli è mai riuscito. Vasto programma."
"Che governo sarà? Molti “tecnici” stanno rispondendo a Meloni “no, grazie”, Berlusconi e Salvini alzano il prezzo, La Russa vuol diventare vice Mattarella, cioè Presidente del Senato. Qualche dubbio comincia ad affiorare nei giornali della destra..
Tutti in piazza per la pace. Con Letta, domani, davanti all’ambasciata russa? Con Acli e Arci e senza insegne di partito? Con Conte, contro le armi che Draghi manda all’Ucraina? Secondo il “non pacifista” e accademico dei Lincei, Pasquino, Domani, “Non serve solo la pace ma una pace giusta”.
Molti ucraini temono di restare al freddo e senza luce, Stati Uniti e Germania promettono sistemi di difesa antimissile, Lavrov lancia l’idea di un incontro Biden Putin al G20 in Indonesia. Se tre indizi sono una prova (Repubblica, Corriere e Arte) siamo di nuovo in guerra contro il comunismo cinese e Mao - Xi Jinping.
Infine, Greta Thumberg dice alla televisione pubblica tedesca: “Se sono già attive, sarebbe un errore chiudere le centrali nucleari per affidarsi al carbone”. Cerasa, il Foglio, interpreta liberamente che è meglio costruire nuove centrali nucleari che puntare sulle rinnovabili. E, scrive, il governo Meloni lo farà.".
Left, 6 Ottobre 2022. Stefano Galieni.
Citto Maselli: La mia Lettera aperta… alla sinistra in crisi
Le sue opere, la sua storia, il suo impegno politico. A colloquio con il grande regista “protagonista” del docufilm di Daniele Ceccarini “Citto” nelle sale dal 10 ottobre
Il 10 ottobre è una data importante per chi ama il cinema. Arriva infatti nelle sale Citto, il film documentario realizzato da Daniele Ceccarini e presentato, in anteprima, al Pesaro film festival. Un lavoro interessante, incentrato sulla figura del grande regista Citto Maselli di cui si ricostruisce il profilo, la storia, il lavoro ma non solo. Citto (il nome deriva dal diminutivo di Francesco ed è frutto dell’intuizione di suo zio Luigi Pirandello), utilizza foto d’epoca che lo vedono con ad autori come Zavattini, Visconti, Antonioni, brevi frammenti di film in cui si riconoscono attori straordinari come Gianmaria Volonté, Claudia Cardinale e tanti altri, amici, registi, collaboratori, compagni di vita e di impegno politico.
Maselli, sulla soglia dei 92 anni rivendica la propria identità e il proprio ruolo politico. Scorrono e si alternano nel documentario, personalità del cinema a dirigenti politici, intellettuali, uomini e donne che lo hanno incrociato nel suo percorso. Grazie anche alla collaborazione della sua compagna Stefania Brai, abbiamo avuto modo di intervistare il maestro Citto Maselli, nel senso profondo del termine, che ha conservato l’anima giocosa, profonda ma limpida con cui ha attraversato il secolo e le sue risposte conservano una forza e una modernità che hanno ancora molto da insegnare.
La prima domanda è d’obbligo: si riconosce nel modo in cui è stato raccontato nel lavoro di Daniele Ceccarini?
Francamente provo quasi imbarazzo per come il film di Daniele si esprime positivamente nei miei confronti. Mi piacerebbe poter essere davvero come sono raccontato nel film. Ma voglio anche dire che il regista e i suoi collaboratori hanno fatto un lavoro eccezionale, considerando oltretutto che è un film interamente autoprodotto. La cosa che più mi ha colpito e commosso è l’amore di Daniele verso il cinema in generale e verso il mio cinema.
Le attrici e gli attori con cui ha lavorato hanno un modo di parlare di lei che colpisce. Colgono la sua capacità nel dirigerli sul set e contemporaneamente dicono di sentirsi profondamente rispettati come professionisti. Più di uno parla di amore verso chi è inquadrato dalla cinepresa. Cosa pensa di queste considerazioni?
Nel corso degli anni in realtà ho modificato il mio modo di lavorare con gli attori. Sono partito dall’estrema autoritarietà, seguendo Visconti e in parte Antonioni, nel senso che tendevo ad impostare nei dettagli tutta la recitazione. Poi sono cambiato radicalmente: cerco prima di tutto il rapporto umano e riscrivo il copione mano a mano che va avanti il mio lavoro con gli attori. Ho un profondo rispetto del loro lavoro perché conosco a fondo quanto è delicato e difficile (forse anche perché sono stato per molti anni il compagno di un’attrice). E sono molto felice che questo rispetto venga recepito dagli attori che hanno lavorato con me.
Ceccarini coglie il valore politico del suo lavoro. Come spiegherebbe ad un regista di oggi l’importanza di fare una scelta militante?
Gli racconterei quello che mi ha insegnato Luchino Visconti, di cui ho avuto l’onore di essere stato amico e assistente alla regia: da un lato l’etica del lavoro e dall’altro la consapevolezza che stai facendo un lavoro artistico ma che insieme hai una enorme responsabilità umana e sociale, che poi è anche politica. È la lezione che io, da comunista, ho cercato di mettere in pratica nella mia vita. Come ho già detto, sono dell’idea che non solo questa società debba essere cambiata, ma che l’arte ha una responsabilità e una possibilità in più in questo processo di cambiamento, per contribuire a creare una coscienza generale. Direi ad un regista, oggi, che anche con l’arte si può cambiare il mondo.
Nel docufilm c’è una attenzione particolare sugli inizi, a partire dall’esordio con Zavattini in “Storia di Caterina”. Come ricorda quell’esperienza?
Zavattini oltre che un grande scrittore e sceneggiatore è stato un grande intellettuale. Intellettuale avido di confrontarsi sui grandi temi del presente con altri intellettuali e con i giovanissimi che lo incuriosivano. Io ero tra questi nel 1951, quando passavamo delle lunghissime serate da lui con Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci e Augusto Frassineti per un film a episodi da immaginare e scrivere, ma in realtà per discutere di tutto: dalle ombre viola di Manet alla modernità sbalorditiva di Goya, dalla riscoperta di Gongora alla pubblicazione di Sant’Elia da Scheiwiller, dal ruolo dell’Unione sovietica di allora alla guerra in Corea dove erano intervenuti da poco “i volontari cinesi” creando discussioni a non finire e portandoci fin da allora implacabilmente al tema centrale della pace. Zavattini aveva visto uno dei miei primi documentari: Bagnaia. Ne era entusiasta e mi dette la possibilità di fare il mio vero primo film. Era convinto che avrei fatto una cosa giusta e forse è la cosa più bella che ho fatto. Con Zavattini si sviluppò poi un sodalizio politico-culturale che è durato 50 anni, fino alla sua morte.
Lei ha provato a rivoluzionare il festival di Venezia mettendo in connessione esperienze artistiche anche molto diverse fra loro. Pensa che nel cinema, come nella vita sociale, sia ancora praticabile il concetto stesso di “rivoluzione”?
La “rivoluzione” di Venezia era nella trasformazione del festival in una istituzione che proponeva a tutti gli artisti di tutto il mondo e di tutte le discipline un laboratorio di sperimentazione, esposizione e confronto capace di consentire alla cultura e all’arte uno sviluppo slegato dalle logiche mercantili e dagli infiniti condizionamenti che pesano su questo settore determinante nella e della vita di tutti. Anche quella piccola rivoluzione è stata poi sconfitta con un ritorno alla cosiddetta “normalità”. Così come sono state sconfitte quasi tutte le conquiste sociali e culturali della metà degli anni 70, che riguardavano i diritti fondamentali dei lavoratori. Per cui sì, il concetto di rivoluzione – nella produzione artistica così come nella società – non solo è ancora praticabile, ma sempre più necessario. C’è uno straordinario editoriale dei primi anni 70 di Luigi Pintor che finisce con parole per me illuminanti, il cui senso ho cercato di illustrare in tanti miei film: lui parla della globalizzazione, dei suoi effetti devastanti, del dominio dell’economia e del profitto ai danni dei parlamenti che divengono “lacci e laccioli” e dei sindacati che non sono altro che “nemici da battere”; tutto ciò – dice Pintor – determinerà migrazioni di interi continenti, vi saranno catastrofi e tragedie inenarrabili: “finché la terra tremerà di nuovo sotto i nostri ben calzati piedi”.
Ripensando a “Lettera aperta a un giornale della sera” cogliamo ancora una grande attualità micidiale anche se il mondo del XXI secolo è profondamente cambiato. Quali corde voleva toccare con quel film?
In Lettera aperta parlavo di sentimenti e contraddizioni che avevo io stesso vissuto sulla mia pelle: non era una storia vera, ma vero era il meccanismo del rapporto tra intellettuali e partito. E’ il tentativo di raccontare proprio il disagio profondo di essere persone che vogliono cambiare il mondo dentro un ambiente tutto organizzato per la costruzione del consenso, per l’adeguamento all’esistente. Chiunque sia comunista, in una società capitalistica, vive queste contraddizioni: gli intellettuali in particolare, che hanno canali privilegiati di potere, di denaro, di esposizione mediatica. Oggi il ruolo degli intellettuali comunisti – ma direi di qualunque intellettuale degno di questo nome – è quello della costruzione assidua, accanita di una cultura critica, di un’intelligenza critica della realtà. Dice Gramsci: “Lottando per modificare la cultura… si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno … ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria”.
Chi parla, nel documentario di “Storia d’amore” ne coglie il profondo senso politico, anche qui lei sembra sperimentare qualcosa nel narrare che oltrepassa ogni definizione di genere. È questo anche un manifesto profondo del tuo essere comunista?
Ho sempre cercato di sperimentare linguaggi diversi a secondo a di quello che volevo esprimere. Quando dico che i film sono prototipi e non prodotti, voglio dire proprio questo: ogni film è un’operazione espressiva unica che non può e non deve ricadere nelle formule preordinate. Riguarda l’essere autore più che l’essere comunista. Se poi le due cose coincidono…
Wilma Labate racconta dei giorni del G8 di Genova in cui andaste in tanti, come registi, a costruire un racconto collettivo necessario. Esiste ancora secondo lei il bisogno di un intellettuale collettivo in grado di capire il presente?
I film collettivi sono nati dall’esigenza di molti autori di raccontare la realtà più profonda delle conflittualità che non sono sempre e necessariamente lotta di classe. Per questo costituimmo l’associazione “Cinema del presente”. La progettazione, la scelta dei temi, la chiave di lettura era frutto di un lungo lavoro collettivo, ma poi lo “sguardo” sulla realtà era ovviamente individuale, per tornare con il montaggio, a formare un “racconto collettivo”. Ma non si può parlare di intellettuale collettivo. Se poi mi chiedi se penso che per capire il presente e ancora di più per cambiare il presente ci sia bisogno di un partito-intellettuale collettivo, la risposta è assolutamente sì.
Il mondo intellettuale e culturale che viene raccontato nel lavoro di Ceccarini rappresenta con molte sfumature il suo modo di guardare al mondo e all’umanità. Quali sono quelle per lei più importanti?
Sempre guardando alla conflittualità di classe: non però in modo astratto ma attraverso le sofferenze, le contraddizioni, le difficoltà umane e individuali oltre che sociali.
Da ultimo c’è una scena in cui Ken Loach racconta di quando concludendo una serata con vari registi, lei intonò l’Internazionale e gli altri le vennero dietro, ognuno con la propria lingua. È forse quella “futura umanità” in tutte le lingue che dobbiamo, come ogni utopia, continuare ad inseguire?
Assolutamente sì. La versione francese dell’internazionale dice infatti che l’internazionale sarà “il genere umano”.
Striscia rossa, 6 Ottobre 2022. Susanna Camusso.
Il mio impegno per ricomporre la lacerazione tra il PD e il mondo del lavoro
Nel 2016 la Cgil fece una campagna straordinaria di assemblee – in tutti i settori e in tutto il Paese – per promuovere tre referendum e la proposta di legge della Carta universale dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Credo sia stata l’ultima grande e diffusa campagna di assemblee di lavoratori e lavoratrici. Uscimmo da quello straordinario viaggio con la consapevolezza della solitudine del mondo del lavoro: da un lato ci era stato restituito un messaggio positivo sulla ricostruzione dei diritti del lavoro e, insieme, il bisogno di uscire dalla solitudine e dall’invisibilità. Constatammo, senza perifrasi, la misura della rottura, della sfiducia nei confronti della politica, del governo, del centrosinistra.
Il “non ci vedono”, che nel frattempo è diventato “non ci hanno visto”, era la costante degli interventi sul rapporto con la politica. Jobs act e Buona scuola hanno rappresentato un punto di rottura: mentre le crisi industriali restavano irrisolte, veniamo propagandati modelli competitivi e colpevolizzanti, al contempo si negavano diritti sociali necessari a contrastare le insicurezze.
Sentii, allora, la responsabilità di condividere l’esito di questa consultazione con i gruppi parlamentari del centrosinistra, i direttori dei giornali e il Presidente della Repubblica (l’unico che mostrò curiosità ed interesse ad approfondire). Certo non era un sondaggio, né un’inchiesta scientifica, ma nemmeno uno sfogo. Era il maturare di una frattura già avvertita qualche mese prima, alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna, quando – durante un attivo dei delegati in piazza Maggiore a Bologna – delegati storici di importanti fabbriche mi informarono della loro decisione di non andare a votare, rompendo un vero tabù della nostra cultura. Per chi non ricorda, furono le elezioni del 37% di votanti.
Un marchio non spendibile
Non scopro oggi, quindi, il processo per cui il PD è diventato un “marchio non spendibile”, non rappresentativo delle istanze del mondo del lavoro; so come e quando è arrivato a compimento il processo di rottura. Ho visto come sia più lacerante e generi maggior solitudine la frattura simbolica col lavoro se avviene nel centrosinistra. Rottura più profonda che non quella con il governo Monti. Allora, infatti, Barca votò contro nel consiglio dei ministri e Bersani ottenne modifiche che salvaguardavano la sostanza della tutela dell’art.18.
Sono partita, apparentemente, da lontano perché penso che la più grande responsabilità sia stata quella di non confrontarsi sulla rottura con la “base ideale” della sinistra. Nel continuare a pensare che impresa e lavoro siano sinonimi, che i diritti sociali esistano solo quando c’è surplus e non per effetto di politiche redistributive, che la precarietà sia superabile inseguendo l’araba fenice della flexsecurity, che la discriminazione delle donne sia risolvibile nello sfondare il tetto cristallo per poche senza guardare alle molte.
Nello stesso tempo ho sempre pensato che non si potesse immaginare una nuova sinistra plurale e di governo senza fare i conti con il PD.
Ho fatto la campagna elettorale candidata nelle liste di Italia Democratica e Progressista provando a proporre e valorizzarne il programma, credo il più a sinistra degli ultimi venti anni, che pur senza autocritiche, un po’ in sordina, comincia a fare i conti con gli errori e le rotture.
Un programma che permette di ragionare di futuro a partire dalla lotta alle diseguaglianze, dal valore del lavoro, dell’ambiente e del contrasto al cambiamento climatico. Che dice che i diritti civili, fondamentali, non sono in alternativa a quelli sociali, anzi, gli uni senza gli altri possono far regredire entrambi.
Voglia di discutere
Ho incontrato in campagna elettorale molti militanti – giovani e non – che non hanno paura di discutere di errori e di proposte; ho invece sentito il peso dei comitati elettorali, incapaci di elaborare il lutto per la fine del governo Draghi – tradotto invece in slogan elettorale – e senza voglia di mettersi in gioco sul che fare.
Nella prossima legislatura rappresenterò una regione del Mezzogiorno (la Campania, ndr), e continuo a vedere i giovani e le giovani che se sono andati, le reazioni all’autonomia differenziata, l’insofferenza allo sprezzo con cui si da la colpa della povertà e si bollano come assistenzialismo gli interventi per mitigarla. Il senso di una parte del Paese che si sente non vista e non conosciuta, come tanti lavoratori e lavoratrici.
Così come ho avvertito che aver rimosso il tema della guerra dalla campagna elettorale non diminuisce la paura e l’insicurezza, e sarebbe necessario avere proposte di pace.
Di questo credo che si debba discutere nel PD per definire le scelte di rappresentanza e le politiche che rispondano al grande tema delle diseguaglianze. Sono queste le ragioni che mi hanno portato a firmare l’appello Bindi, De Masi, Montanari, Bruni ed altri: non il gioco “scegli le alleanze e scoprirai chi sei”, ma la volontà di proporsi una sinistra unita, plurale, di governo, cha ha dinanzi a sé una stagione – probabilmente lunga – di opposizione che sarà anche la misura delle scelte e del profilo politico.

Nessun commento:
Posta un commento