venerdì 30 settembre 2022

Appunti sulla sconfitta, 5.



I fogli beceri della nostra destra becerissima gongolano.

Libero:

"Boldrini contestata

Pure le femministe si son rotte di Laura".

Il Giornale:

"CONTESTATA IN PIAZZA

'Non è una di noi, il Pd ci ha deluse' Le femministe scaricano la Boldrini".


Seconda lista.

Damiano dei Måneskin, Malika Ayane e Fedez. (continua).


Occhio Damilano!

"Moratti va al talk di sinistra per sgambettare Fontana". 


Materiali per ragionare.

Post Fb del professor Piero Graglia.

"Quattro giorni fa ho scritto che Calenda e Renzi, pronti a correre in soccorso del vincitore, saranno il centro di un centrodestra che al momento è solo destra.

Apriti cielo. Chi mi ha dato del sognatore, chi dell'illuso, larvatamente calunniatore di brave persone.

Oggi Calenda dichiara che è pronto a riscrivere insieme le regole, e a sedersi a un tavolo riformatore con la Destra. Ovviamente tira in ballo la responsabilità.

Responsabilità. Tipo quella di essere all'opposizione di un modello sociale e politico? 

Bisogna intendersi cari amici e compagni. Se fai opposizione non puoi entrare nella spirale del compromesso strisciante che ti fa essere formalmente all'opposizione ma in realtà reggicoda collaborativo. 

Delle due l'una: o sei all'opposizione, e allora ti opponi in coerenza a una visione di insieme dei rapporti politici e sociali proposta dalla destra, oppure sei collaborativo, e allora la tua opposizione serve, come si dice in Toscana, "come il cazzo alle vecchie".

Ma bisogna dirlo, e non sdoganare questa destra vittoriosa con la propria ambiguità.".

 

Micromega, 28 Settembre 2022. Giuseppe Panissidi.

"Di quale “riscatto” parla Meloni?

“La notte del riscatto”. Questa l’esternazione, a caldo, di Giorgia Meloni, poco dopo la conferma ufficiale del proprio personale e previsto successo elettorale, ancorché in un contesto inequivoco di sconfitta dei suoi soci. È del tutto evidente, infatti, che, se di un vincitore si può parlare, questo vincitore è lei, e lei soltanto, la sua destra, non l’intera destra, come si ripete pedissequamente, dal momento che l’altra destra è uscita con (quasi) tutte le ossa rotte da questa bislacca competizione elettorale. La precisazione appare oltremodo necessaria, anche se una (per lei) provvidenziale legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum bis, magico dono promosso da un Pd lungimirante come non mai, in maldestra funzione anti-grillina, e come di consueto in buona compagnia, incorona e legittima la nostra signora dei miracoli nel ruolo di premier.

Il riscatto, dunque.

Sebbene “intendersi” significhi “fra-intendersi”, alla stregua dell’ermeneutica e dell’esperienza, forse giova rammentare che uno degli insegnamenti più cogenti della psicologia del profondo suggerisce di prendere gli altri sempre sul serio. Ebbene, nella lingua patria, lemma molto caro a Meloni, di certo assai più che Paese, Repubblica o Stato, com’è stato opportunamente osservato, nella situazione data, “riscatto” non può che significare liberazione/redenzione politico-sociale, dovendosi ragionevolmente escludere la valenza giuridica di cessazione di un obbligo contratto in precedenza.

E dunque, riscatto da che cosa? E per chi? Forse da alcuni decenni di storia? Oppure dalla perfida, se non Albione, Unione Europea, notoriamente responsabile dello stratosferico debito sovrano dissennatamente accumulato da un suo membro negli ultimi quarant’anni? Impensabile, si spera.

E tuttavia, alla sua ampia, seppur minoritaria, platea elettorale, ma coram populo, la premier in pectore cerca di significare che l’ora della liberazione è scoccata. Sfortunatamente per una (purtroppo) non trascurabile componente dei suoi elettori, non è l’“ora segnata dal destino [che] batte nel cielo della nostra Patria”. Infortuni mentali a parte, evidentemente, visto che quell’ora, più che sul cielo, batté sulle vite di un popolo. “Le vite degli altri”.

Malgrado ciò, gli elettori sono e restano tutti cittadini, se l’uso di un termine di matrice illuministico-rivoluzionaria non ferisce l’acuta sensibilità politica e civile della scaltra prima donna di un Paese di furbi, oltre che, com’è noto fin da Cristoforo Colombo, ma in specie da un panegirico abissino del 1935, “di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di trasmigratori e di navigatori”.

L’auspicio, allora, è che il riscatto che esalta l’eloquio della signora riguardi, in modo preminente, il dissesto istituzionale e il profondo disagio sociale che affliggono il Paese, sullo scoglio delle cui vertiginose diseguaglianze si infrangono inesorabilmente tutte le politiche e le soluzioni tecniche degli ultimi trent’anni. Chissà se dipende unicamente dal fatto che, secondo il pensiero di molti autorevoli studiosi, dopo John M. Keynes, il capitalismo riesce ad assorbire anche le contraddizioni più forti e a neutralizzare gli antagonismi con relativa rapidità e disinvoltura.

Trent’anni, per l’appunto, un intervallo temporale distinto dal fenomeno cruciale dell’astensionismo critico e sistemico, ben oltre il non-voto fisiologico-strutturale, entro un sistema elettorale spurio, e comunque non maggioritario, che, altrove, può registrare, senza eccessivi problemi, una partecipazione persino inferiore al 50%. Certo è che approfondite ricerche in Francia e Germania attestano la presenza di un elemento “di classe” nella diffusa e crescente apatia civile e politica. In breve, vota molto di più l’elettore meno disagiato sul piano socio-economico e discretamente istruito, e molto meno l’elettore più o meno stabilmente in sofferenza, perché scettico e disincantato.

Vero è che il Paese non ha solo problemi di proficuo utilizzo tecnico di risorse, proprie o europee. Cosicché, l’alternativa all’ottimo Mario Draghi non è l’apocalisse, leitmotiv della improbabile campagna elettorale di alcune formazioni politiche, non escluso il Pd, replicante dei precedenti slogan per Giuseppe Conte, dopo inopinatamente ostracizzato, e ora risarcito dal voto, bensì la buona politica. Che, antipode del governismo di risulta del malriuscito progetto/Pd, è però destinata a rimanere chiusa nel libro dei sogni, almeno fino a quando l’aspirante sinistra immaginerà di poter risolvere le micidiali criticità, d’indole essenzialmente politico-identitaria, senza mettere in campo un vaste programme, riscattato dall’inflessione sarcastica di de Gaulle e da fantasie opportunistiche e pretenziose. Un programma realistico e coraggioso a un tempo, operativo ma non esaustivo, igienicamente sottratto a pur bravi tecnici e pseudo-intellettuali di mestiere o a contratto, e volto a far sentire e leggere parole semplici e capaci di mordere sul reale, su quanto può e deve essere fatto, per chi e con quali costi e vantaggi. Appunto: per chi.

Le soluzioni meditate, cioè non improvvisate e calate dall’alto, bensì effettivamente partecipate, sono sempre più facili da attuare e, in caso di inadeguatezza, sono anche più facilmente correggibili e migliorabili. Certo è che nessun coinvolgimento attivo e fattivo della cittadinanza, al di là della propria greppia elettorale, nessun mutamento di paradigma sarà mai possibile, fino a quando si (s)ragionerà in termini di giochi di potere e beceri riti congressuali e di leadership! Da ultimo, tra gli altri, dopo Fabrizio Barca, sembra convenirne Andrea Orlando, purché non si versi in tema di… candidature alla segreteria del Pd.

Una seconda, auspicabile possibilità esegetica, per usare una parola grossa, è che il riscatto meloniano intenda riferirsi alla redenzione di quanti, in un’occasione finanche in sua presenza, celebrano la marcia su Roma. Anche da quel camerata non risulta che si sia “dissociata”, forse per par condicio, visto che oggi rivendica di non essersi dissociata dal giudizio di Gianfranco Fini sul “fascismo male assoluto” in riferimento alle leggi razziali.

Eppure, quei nostalgici che ancora si tormentano per la crudele fine dell’uomo della provvidenza, in realtà sono soltanto smemorati, perché dimentichi che l’artefice della nostra potenza di cartapesta riteneva che, “a volte, nella vita, un po’ di piombo è quel che ci vuole”. Ironia della sorte, alla fine, ebbe la ventura di imbattersi in chi la pensava come lui. Il dissenso plurale è vitale, senza dubbio, ma… Non è forse un motivo di orgogliosa soddisfazione il constatare che anche altri la pensano come noi?!

Giunti a tal punto, la mente e il cuore non possono non rievocare il mitico scrigno di Pandora, la cui apertura provoca un deserto di desolazione e dolore. Se non che Pandora lo riapre e ne fa uscire una piccola e fragile creatura: la speranza.

Ecco, quest’angolo di mondo riprenderà a vivere se e quando la signora Meloni tradirà – ci si condoni l’apparente contraddizione nei termini – la promessa di “non tradire” gli italiani e, invece, in modo particolare, nel doveroso rispetto dei più, tradirà uno dei suoi portatori d’acqua, il patriota nostalgico, che vive e lotta insieme a lei, nell’ardente quanto vana attesa di Godot, in armonia con gli altri due soci, non casualmente da lei giudicati, bontà sua, “comunque importanti”.

In tema di nostalgia, peraltro, la signora potrebbe svolgere un ruolo altamente pedagogico rispetto ai disturbati/malinconici, clinicamente regrediti a fasi pregresse dello sviluppo, deviando la loro intensità sentimentale sul presente, mediante lo spostamento delle loro coordinate spazio-temporali, e aiutandoli a riposizionare ragionevolmente le proprie aspettative entro nuove coordinate. Anche allo scopo salutare di preservare la temperie malinconica (e noi) dall’infelicità e dai pericoli di una nostalgia canaglia…

Perché, se per il cittadino nostalgico la parola riscatto si coniuga, fino a formare un binomio inscindibile, con le parole ritorno e riscossa, per il cittadino disagiato riscatto equivale innanzitutto a guadagno di una condizione di vita materiale finalmente dignitosa. Finalmente.

Quanto alle nostre migliori attese, infine, per il momento dobbiamo limitarci a prendere atto della buona salute del prossimo premier, sicuramente coriacea e palesemente immune (almeno) da fastidiosi disturbi gastro-enterici, a giudicare dall’appassionata condivisione del suo morigerato (e ostentato) rigore con quei ben noti compagni di strada.".


Reset 27 Settembre 2022. Ettore Maria Colombo.

"Il PD via dal governo a lungo

Aperta la guerra di successione

La conferenza stampa del post-sconfitta – quella che dovrebbe servire ad ‘analizzare’ il voto (ma così non è, ça va sans dire) è quello che è. Triste, solitaria y final. Il segretario del Pd, Enrico Letta, annuncia, ammettendo la sconfitta nelle urne, che non si ricandida alla guida del Pd. Letta annuncia: sarà “accelerato” il percorso del congresso e “io non sarò candidato”: “Mi assumo la responsabilità” del risultato, dice, “assicurerò la guida del partito” fino al congresso, ma “la mia leadership finisce qui (o, meglio, lì, ndr.)”. Poi definisce la decisione “un gesto d’amore” al Pd.

Esce di scena con dignità, dunque, Letta: niente dimissioni frettolose, sull’onda dell’emotività e della sconfitta, ma il suo compito si è concluso. Però sta a lui, “per spirito di servizio”, portare la croce, novello San Sebastiano trafitto dalle frecce (quelle degli avversari esterni e pure interni), cioè il Pd al congresso e a un nuovo leader: insomma, non abbandona la nave che affonda. I tempi previsti per il congresso saranno accelerati, però, e il congresso si terrà entro febbraio 2023. Mese più mese meno, sarà quasi a scadenza naturale.

Letta non è mai passato per il lavacro primarie ma è stato eletto in seno all’Assemblea nazionale

Il precedente congresso, infatti, elesse Zingaretti, segretario, dopo le primarie vinte contro tanti altri e l’Assemblea nazionale che ne scaturì (2019), vedeva la maggioranza dei delegati in mano all’area ‘Zinga’, dalla vittoria schiacciante (66% dei voti, ai due sfidanti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, i relativi ‘resti’). Più (si capisce) Area dem, cioè quella di Dario Franceschini, storico alleato di chi – di volta in volta – li vince nelle urne (e, non caso, sempi-eterno ministro di tutti, o quasi, i governi…), i congressi. Mentre all’opposizione, ramenghi, finirono gli ex renziani di Base riformista (area Lotti-Guerini), i Giovani Turchi di Orfini e l’area ex Martina, che poi si è ‘riconvertita’ in area Graziano Delrio. Insomma, Letta non è passato per il ‘lavacro’ delle primarie, quelle in cui, Romano Prodi dixit, “deve scorrere il sangue”, ma è stato eletto, coram populo, dall’Assemblea nazionale, regno del Bengodi dei maggiorenti dem e storicamente prigioniera delle sue correnti.

Nel 2021, però, tutti a ‘pregarlo’, a Letta: “torna, salvaci, dobbiamo restare al governo!”

All’epoca, inizio 2021, tutto lo acclamarono felici – anche perché Zingaretti si era dimesso all’improvviso, un caso ‘di coscienza’ personale (in pratica, gli avevano ceduto i nervi…) – e, insomma, il Pd era rimasto “nave sanza cocchiero in gran tempesta”, come diceva messer Dante, e allora tutti a pregare Letta: ‘torna, aiutaci’.

Peraltro, con una di quelle coincidenze che fanno la Storia, Letta viene eletto (anzi, meglio: acclamato) segretario e Mario Draghi diventa premier. Pareva la quadratura del cerchio, ecco. Il Pd – che, di riffa o di raffa, al governo ci stava dal 2013 (governo Monti, poi governo Renzi, poi governo Gentiloni, elezioni 2018, breve pausa per il governo Conte I, panico nelle fila democrat: ma come? Non siamo più al governo?! Impossibile!, di nuovo al governo col Conte II) – pensava di averla sfangata pure questa volta.

Invece no, stavolta le elezioni, domenica scorsa, danno un esito indubitabile, chiarissimo: centrodestra al governo con FdI primo partito e la Meloni presto premier (tempo metà ottobre e la ‘pratica’ verrà smaltita) e Pd all’opposizione. Una di quelle ‘disdette’ che, al Pd, rovinano l’anima, il fegato, la salute, la pelle e le ossa. Ministri abituati allo ‘scattar sui tacchi’ (altrui), a uscieri, portavoce, staff, segreterie, a profusione, che ora saranno costretti al ruolo di deputati – e senatori – ‘semplici’.

Altro che Piave, è stata una vera Caporetto… Una disfatta, ma Letta fa un gesto ‘nobile’.

La leadership di Letta, dunque, è finita, di fatto, ieri. Dopo una sconfitta secca, con il Pd al 19% e quindi sotto la soglia ‘psicologica’ del 20%, cioè dove era stata posta l’asticella tra la ‘linea del Piave’ e una ‘Caporetto’ (ha vinto la seconda), per i dem ora, però, si gioca la partita della vita. Toccherà stare all’opposizione e, dopo tanti anni, nel Pd non ci sono più abituati, proprio per nulla. Intanto, Letta telefona a Giorgia Meloni, leader di FdI, per riconoscerle l’entità della sua vittoria. Altro gesto ‘nobile’ del segretario assai ‘nobile’.

Non è da tutti, dimettersi dopo una sconfitta, per quanto sonora. Salvini, per dire, non lo fa: il ‘Capitano’ intigna, rumoreggia, resiste, arrocca.

I segretari dem e una lunga fila di dimissioni

Nel Pd, però, la teoria dei segretari dimessisi per manifesta incapacità o per netta sconfitta è lunga. Lo hanno fatto Occhetto, dopo le Politiche 1994 (c’era il Pds), D’Alema, dopo le Regionali 2000 (c’erano i Ds), Veltroni dopo le Politiche 2008 (ma a scoppio ritardato, era appena nato il Pd, quello che Massimo D’Alema, oggi fidato ‘consigliori’ di Giuseppe Conte e dei suoi rebeldi e descamisados definì “amalgama mal riuscito”).

Poi, Bersani (2013), ma non dopo la ‘non vittoria’, ma dopo la mancata elezione di Prodi a Capo dello Stato. E per due volte Matteo Renzi: dopo il referendum, malamente perso, nel 2016, e dopo le Politiche, malamente perse, nel 2018. Ma Renzi è fatto così: torna sempre sul luogo del delitto, poi ha pensato di farsi un partitino tutto suo, a sua immagine e somiglianza, e tanti saluti. Infine, si è dimesso Zingaretti, ma sponte sua, nel 2021, all’improvviso, quando arrivò, appunto, Letta, richiamato dal suo esilio dorato a Parigi.

È durato un anno scarso, il già una volta premier. Enrico, dopo essere stato defenestrato da Chigi – le impronte le lasciò Renzi, ma c’erano pure tutti gli altri big, dietro di lui (epica la scena in cui Speranza, Guerini e Franceschini vanno da Letta: nessuno ha il cuore di dirgli che ‘Matteo’ pretende le sue dimissioni, e pure all’istante, alla fine si guardano tra loro, il coraggio lo trova Guerini, spettano sempre a lui i compiti ingrati) – ora si dimette di nuovo. Pure in questo caso, Letta si dimette motu proprio ma tutti i big, capi-corrente, capataz non vedevano l’ora che lo facesse. Non hanno remato, con il loro – presunto – Capitano, a cercare i voti, ma proprio per nulla.

Il tortuoso percorso che porta al congresso…

Solo che il Pd è un partito ‘democratico’ (“nel nome è scritto il suo destino”: pomposamente Veltroni dixit), quindi fare un congresso è un atto maledettamente complicato. Prima va convocato, dall’Assemblea nazionale, poi va tenuto. Si fa in due fasi: primo round tra gli iscritti, secondo tra militanti, simpatizzanti e semplici elettori che, se lo vogliono, partecipano alle primarie ‘aperte’, mentre le prime sono, invece, primarie ‘chiuse’. Il primo voto non può inficiare il secondo, invece il secondo può ribaltare il primo: insomma, alla fine, sono le primarie aperte a indicare il leader.

Infine, il segretario va proclamato in Assemblea, che elegge e ratifica i delegati che ogni candidato si ‘porta dietro’, sempre superino una certa soglia. Un percorso pensato, da due menti eccelse (il politologo Salvatore Vassallo, oggi direttore dell’Istituto Cattaneo, e il costituzionalista dem, Stefano Ceccanti) che però è faticoso, tortuoso. In pratica, è ricalcato sul modello delle elezioni Usa, ma non quelle per scegliere il candidato premier, ma proprio le presidenziali quanto tali. Finisce, ogni volta, in un’orgia di regolamenti, codicilli, quote, soglie di sbarramento, glosse, che fanno diventare matti i cronisti che le seguono, le primarie del Pd, e pure i cittadini che vi votano.

Letta assicura: sarò “neutrale” sui candidati

Sarà, stavolta, però, o almeno così vuol essere, nelle intenzioni delle menti più pie, un congresso ‘approfondito’ sulla identità del Pd e la sua mission, non un semplice gioco di nomi. Letta, rispetto ai tanti che si affollano già nella ‘guerra di successione’ (Bonaccini, Ricci, Elly Schlein) assicura che sarà “neutrale”. Poi, però, esce fuori tutta l’amarezza della sconfitta (“Le sconfitte sono sempre in solitaria”) ma di pari passo con la preoccupazione: “Gli italiani hanno scelto, l’Italia avrà un governo di destra: è un giorno triste per l’Italia e l’Europa, ci aspettano giorni duri”. Per lui, lo saranno meno. Un ‘posto’, Letta, ce l’ha: professore al Dipartimento di Sciences Po, Parigi, oltre che quello di deputato semplice.

Il ‘gesto di amore’ che il Pd non ha apprezzato

Il problema è che, nel Pd, non hanno apprezzato. “Era ora se ne tornasse a fare il professorino!” dice uno. “Resta per condizionare la successione a se stesso!” dice un altro. “Vuole tenere in mano le chiavi del partito, nominare lui i capigruppo di Camera e Senato, condizionando tutto il partito!” sbotta il terzo. Tutti e tre big dem di alto livello.

Il “gesto d’amore” di Enrico Letta verso il Pd non viene, decisamente, contraccambiato, dal Pd mismo. Letta l’aveva messa così, di mattina: se non getta la spugna e resta alla guida del partito, fino al congresso (febbraio-marzo 2023), c’è una ragione semplice che Letta rivendica: “È meglio che sia io a convocare il congresso, piuttosto che cominciare dinamiche che avrebbero fatto perdere tempo. Il mio è un gesto d’amore per il partito”.

Il “gesto d’amore per il partito” è quello a cui Enrico Letta, l’allievo di Beniamino Andreatta, il pupillo di Romano Prodi, europeista convinto, scandisce con più forza. Ma il Pd è nel pieno di un marasma che è appena iniziato. La ‘notte dei lunghi coltelli’ è già iniziata, e fa impressione.

I big democrat negano tutti di avere fatto pressing perché Letta passasse subito la mano, ma i malumori sono cresciuti – in questi ultimi giorni e ore – sia sugli errori compiuti sia sul messaggio della campagna elettorale sia sulla strategia delle alleanze con l’archiviazione del “campo largo” che, in molti, specie nell’ala sinistra democrat, hanno giudicato troppo “facile, frettolosa”. “Alleati con Conte, potevamo vincere” dicono, ma ‘ora’, i vari Orlando, Provenzano, Bettini.

La conferenza stampa di Letta è stata preceduta da una riunione dello stato maggiore del partito. Alla fine, è Dario Franceschini – sempre lui, uno che c’è’ sempre, quando si tratta di coltellate – a insistere: “No all’idea di un Pd allo sbando”. Letta, dunque, garantisce di traghettare il Pd verso una nuova era, una nuova classe dirigente. Per il Pd tertium non datur: rinascita o estinzione.

I candidati dem già ai nastri di partenza

I candidati, già ai nastri di partenza, per la ‘guerra di successione’ a Letta, dimissionario, sono tre. Altri potrebbero, presto, aggiungersi alla bisogna, come, per dire, il sindaco di Firenze, Nardella, il cui mandato scade tra un anno e poco più, ma per ora limitiamoci a indicare quelli (quasi) ‘sicuri’.

Il primo è il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, da poco nuovo e ‘rinnovato’ nel look (è dimagrito, si scolpisce la barba, si è messo gli occhiali a goccia, abiti aggressivi, etc.) e pure nelle alleanze. Spazia dai sindaci, in carica e non (da Gori a Nardella, da Decaro a Gnassi) alla corrente degli ex renziani, Base riformista, di Lotti e Guerini. E ha già stabilito una ‘rete’ di referenti, per ora solo regionali, ma presto pure provinciali e comunali, nei famigerati ‘territori’. Quelli dove, dall’Alpe alla Sicilia, il Pd non becca più neppure un voto neppure a pagarlo, ora.

Manca solo l’annuncio ufficiale, ma arriverà, e pure presto. “Stefano si è portato troppo avanti e, stavolta, non si tira indietro, non fa sor Tentenna” – spiegano, impettiti, i suoi fedelissimi. Si vedrà. Certo è che, a campagna elettorale ancora in atto, Bonaccini ha tenuto, a Rimini, un’iniziativa priva di simboli di partito (il suo) e solo con un grande tricolore e un grande ‘cuore’ (rosso). L’idea dei suoi è quella di impostare la campagna elettorale congressuale stile campagna da premier (del futuro prossimo che mai sarà, visto che, in teoria, per 5 anni governerà la destra) e non solo da segretario di una ‘parte’ politica.

I ‘poteri forti’ (Confindustria, sindacati, coop) si stanno già posizionando, quasi tutti, su di lui. L’idea è anche di un ticket con una donna. Voci insistenti parlano di Simona Bonafé: toscana, segretaria del Pd, colta quanto amata, neo-eletta deputata, in procinto di traslocare da Bruxelles per il Parlamento italiano, dove potrebbe essere la capogruppo dem alla Camera, col placet di Letta.

Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, scende in campo con la sua ‘rete’ e lo fa “a viso aperto”

Poi c’è il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, nonché presidente di Ali (Autonomie per l’Italia, che è una sorta di Anci coté progressista, braccio destro e sinistro, dentro Ali, Valerio Lucciarini), il quale ha – a sua volta – deciso di scendere in campo, e ieri, a ‘cadavere’ (di Letta) ancora ‘caldo’, sul ring. Almeno, però, a viso aperto.

Farà una campagna elettorale (ma da segretario del Pd, senza coltivare ambizioni da grandeur) con tanto di tour di ‘prossimità’ in tutta l’Italia, anche perché, essendo lui molto ‘marchigiano’, ha bisogno di farsi conoscere al Sud e al Nord, per far conoscere meglio lui e il suo programma.

Slogan e claim della campagna “Sinistra veloce”, titolo dell’evento, il “Festival delle città”, che Ali tiene, ogni anno, a Roma, agli inizi di ottobre. A ora, almeno lui, però, non prevede alcun ticket…

La vera outsider è la ‘pasionaria’ Elly Schlein

La terza è il nome che molti, se non tutti, temono che scenda, per davvero, in campo. Si tratta di Elly Schlein: a sua volta neo-eletta, alla Camera, super-acclamata al comizio di chiusura di Letta, grazie al suo ‘frontale’ contro Giorgia Meloni (“Sono una donna, sono lesbica, non sono mamma”, mancava solo: “non sono cristiana”…), già quasi ex vicepresidente proprio di Bonaccini, cittadinanza metà svizzera e metà americana, la Schlein sarebbe non solo la candidata che “piace alla gente che piace”, fuori e dentro il Pd, dato che è molto esposta sui diritti civili e pure sociali, ma anche quella su cui punterebbero, all’unisono, sia lo stesso Letta, che resterà in carica come segretario “con pieni poteri” fino al congresso – e, dunque, fino alla proclamazione del neo-leader – ma anche Romano Prodi e a tutta la sinistra.

La quale sinistra (voleva, all’origine, lanciare la candidatura del giovane, neo-eletto, vice-Letta, Peppe Provenzano, allievo del Pci Macaluso), sta capendo che solo ‘Elly’ può fermare la corsa, altrimenti destinata al successo, di Bonaccini. Il quale, ‘a sinistra’, viene vissuto come un ‘cavallo di Troia’ del nemico pubblico n. 1, e cioè Renzi. La Schlein potrebbe scegliersi un vice, in ticket, all’incontrario (donna/uomo) nell’eurodeputato, altro frontman di diritti, Pierfrancesco Majorino. Ricci, in tal caso, farebbe da ‘terzo incomodo’. Ma la ‘guerra dei Roses’, nel Pd, è solo iniziata.".

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