Letta non si dimette ma non si ricandida a segretario al congresso del Pd. Per informazione, il congresso si terrà, se va tutto bene, fra tre mesi.
Edith Bruck: "Persa la coscienza civile".
Le prime pagine di Libero e de il Giornale sono ridicole, non sanno nemmeno vincere.
Farina oggi slinguazza con gusto il deretano a Esse Bi, la sua è una missione. Occhio all'epatite.
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Materiali per ragionare.
Jacobin, 26 Settembre 2022. Lorenzo Zamponi.
"L’Italia va a destra. Con nettezza, con decisione, ma senza entusiasmo e con poca paura. Fratelli d’Italia è primo partito, la prima maggioranza assoluta uscita dalle urne dal 2008 è quella guidata da Giorgia Meloni, che viaggia verso Palazzo Chigi. Ma tutto ciò avviene con un’astensione da record: l’affluenza è 63,9%, quasi dieci punti in meno del 2018. Ha votato a destra poco più di un italiano su quattro ma la maggioranza è netta, e governerà. Il crollo della Lega, in particolare nel nordest, apre scenari da fine regime. Nettamente sconfitta la linea di Enrico Letta, che ha riportato il Partito democratico ai minimi storici del 2018, e che rompendo l’alleanza con il Movimento Cinque Stelle ha permesso alla destra di conquistare un’ampia maggioranza in termini di seggi. Giuseppe Conte, rispetto a ciò che annunciavano i sondaggi dopo la caduta del governo Draghi, conclude una straordinaria rimonta a poche migliaia di voti dal sorpasso sul Pd, dopo una campagna elettorale giocata tutta a sinistra.
Una vittoria netta senza reale forza alle spalle
La svolta a destra è netta: per la prima volta nella storia la destra radicale post-fascista, ora rappresentata da Fratelli d’Italia, è il primo partito, con il 26% dei voti. La fiamma tricolore dei vinti della Repubblica di Salò che si erge dal feretro di Mussolini è stato il simbolo più votato dagli italiani. Giorgia Meloni, a suo tempo militante dell’Msi romano, sarà la prima donna a guidare il governo in Italia. Una vittoria strana, arrivata dopo una crescita repentina (quello di Fratelli d’Italia è il terzo più grande aumento di voti tra un’elezione e l’altra della storia europea) da parte di un partito tutto sommato piccolo in termini di iscritti, strutture e gruppo dirigente, non sostenuto da vasti movimenti, da una partecipazione diffusa, da una potente spinta dal basso. La destra vince le elezioni con l’affluenza più bassa della storia repubblicana, votata dal 43,8% del 63,9% che ha votato: il 28% dell’elettorato. E con sostanzialmente gli stessi identici voti in termini assoluti di quelli ottenuti dalla coalizione di Centrodestra nel 2018.
Gli scenari più foschi e meno realistici tratteggiati alla vigilia (FdI e Lega in grado di governare da soli senza Forza Italia, la destra con in mano i due terzi del parlamento necessari a cambiare la Costituzione senza referendum, e così via) non si sono realizzati, ma la vittoria c’è. Da una parte, arriva da lontano: trent’anni di normalizzazione, trivializzazione e sdoganamento del fascismo hanno creato le condizioni perché ciò avvenisse, perché Fratelli d’Italia fosse considerato un partito come un altro, pienamente legittimo nel quadro democratico costituzionale. Dall’altra, è fondata su due condizioni contingenti. La prima è il crollo delle leadership di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini: bruciati gli altri, fondamentalmente, a destra «toccava a Meloni», con poche alternative. La seconda è stata il governo Draghi, che ha spaccato il centrosinistra, ha contribuito a indebolire il resto della destra e ha regalato a FdI un clamoroso, insperato e immeritato ruolo di unica opposizione a un esecutivo bloccato in un immobilismo pressoché totale dalla sua composizione eterogenea.
Difficile capire ora cosa sarà il governo Meloni. Nasce senza entusiasmo, senza progetto, senza una reale forza alle sue spalle, ma con una maggioranza solida e una leadership che personalmente sembra meno effimera di quella di Salvini. Dovrà inventarsi qualcosa, per costruirsi quelle basi solide nella società che ora non ha. Probabile che cerchi consenso nei temi della cosiddetta «culture war», a partire da temi di genere, Lgbt+, immigrazione e antifascisti. Saranno battaglie simboliche (che non significa prive di conseguenze) o avranno risvolti diretti in termini di policy? Vedremo, a partire da questioni come aborto e omofobia. Sui temi economici, Meloni si presenta con una linea berlusconiana anni Novanta: tagli alle tasse, deficit sì ma entro i limiti europei, tagli al welfare, incentivi alle aziende. Ci sarebbe da scommettere sul fatto che Meloni rilancerà il nucleare, consapevole che non si farà mai, ma contenta di potersi mostrare attiva sul fronte energetico distraendo l’opinione pubblica con una bella battaglia «contro gli ambientalisti per abbassare le bollette». Rispetto alla fase berlusconiana, però, è cambiato il mondo, e sicuramente la sfida per Meloni e i suoi è durissima. Nelle sue prime uscite, lei si è mostrata evidentemente consapevole delle difficoltà e del delicato equilibrio che dovrà mantenere per non sprecare l’occasione storica della prima post-fascista a Palazzo Chigi.
A destra, tiene Forza Italia (8,1%), per la gioia dei commentatori liberal che ne hanno fatto in maniera imbarazzante al limite del ridicolo un baluardo della democrazia, come lo show putiniano di Berlusconi dell’altra sera ha chiarito una volta per tutte. Se gli elettori storici berlusconiani passano senza soluzione di continuità a Giorgia Meloni (del resto ministra dell’ultimo governo Berlusconi) è perché le differenze sostanziali scarseggiano. Crolla invece la Lega, addirittura fino all’8,8%. E crolla non il progetto di destra nazionale di Salvini (già scippato da Meloni) ma il consenso storico al nord, in particolare al Nordest, dove già i primi «crac» annunciano il boato di un sistema che precipita. In Veneto la Lega è sotto il 15%, ampiamente doppiata da Fratelli d’Italia che veleggia sopra il 30%. Un collasso senza precedenti, seppure non senza avvisaglie: già alle regionali di due anni fa, trionfalmente vinte da Luca Zaia, il partito di Salvini si era fermato al 16,9% e a fare la parte del leone nella destra era stata la Lista Zaia con il 44,6%. Il radicamento sociale leghista nel territorio è un lontano ricordo, sostituito da un generale sentimento di sostegno alla destra, che di volta in volta può essere raccolto da Luca Zaia come da Giorgia Meloni, senza alcuna identificazione di partito. Sarà interessante capire ora come reagiranno i ras leghisti del nord alla disfatta: la sorte di Salvini è incerta, seppure sia tutto da dimostrare che senza di lui la Lega sarebbe andata meglio, dato che va ricordata la condizione di sfacelo in cui l’ex ministro dell’interno trovò il partito; quello che è pressoché certo è un rilancio del tema dell’autonomia differenziata, alla ricerca di un modo per mettere difficoltà Meloni (che è ben consapevole del fatto che nessuno stato al mondo può tenere in piedi un bilancio senza le tasse delle due regioni più ricche) e recuperare strada al nord.
La sconfitta dell’agenda Draghi
Va detto che la destra, tutto sommato, ha preso meno voti del previsto. Anche in termini percentuali, il 43,8% è ben lontano dal 48% di cui a lungo ha goduto nei sondaggi, e la somma tra la coalizione di centrosinistra a guida Pd e il M5S fa 41,5%: dire che, se Letta non avesse rotto l’alleanza con i Cinque Stelle a luglio, la partita sarebbe stata aperta è una forzatura, dato che è tutto da dimostrare che i grillini sarebbero stati in grado di raccogliere quei consensi in coalizione; ma è chiaro che la rottura è stata un clamoroso regalo alla destra, in grado di fare il pieno dei collegi uninominali pur essendo ben lontana dalla maggioranza assoluta dei voti.
La sconfitta del Pd è senza appello: dopo cinque anni spesi a cercare di riprendersi dal 18% in cui l’aveva affossato la leadership renziana, e una legislatura che poteva tranquillamente lanciarlo quantomeno verso il 23-25%, a contendersi con FdI il ruolo di primo partito, il partito di Enrico Letta è finito al 19,1% con quasi 800mila voti in meno in termini assoluti rispetto al 2018. Tornato al punto di partenza, dopo una campagna elettorale disastrosa che l’ha visto perdere continuamente consensi un giorno dopo l’altro. Letta ha fatto Letta, fino in fondo, stavolta troppo: l’uomo dell’equilibrio, del non scegliere, l’incarnazione dell’anima del Pd. La scommessa di rompere con i Cinque Stelle, dopo la caduta di Draghi, per passare all’incasso della presunta popolarità del presidente del consiglio uscente e far sparire una volta per tutte Giuseppe Conte e i suoi, prendendosi buona parte dei loro voti, era rischiosa e per avere qualche possibilità di riuscire avrebbe richiesto una campagna elettorale netta e arrembante. Invece il Pd si è impantanato in settimane di trattative sulle alleanze, in cui è riuscito a cedere clamorosamente su tutto a Carlo Calenda (generando rabbia e delusione tra gli elettori di sinistra) per poi comunque farsi mollare, e al tempo stesso ad allearsi con Sinistra Italiana e Verdi (producendo lo stesso sentimento negli elettori centristi), per poi umiliarli annunciando che non li riteneva possibili partner di governo. Una campagna elettorale senza leadership, senza progetto, senza un messaggio neanche vagamente riconoscibile: un’operazione al limite del suicida.
Molto diversamente è andata ai Cinque Stelle: a luglio erano accreditati dai sondaggi all’8-9%, in caduta libera, considerati reietti per la caduta di Draghi e destinati a sparire. Due mesi dopo prendono il 15,4%, vincendo addirittura alcuni collegi uninominali (tra i quali quello di Fuorigrotta in cui l’ex ministro dell’ambiente Sergio Costa ha nettamente sconfitto l’ex collega degli esteri Luigi Di Maio). La campagna elettorale condotta da Giuseppe Conte e Rocco Casalino è stata un capolavoro propagandistico e la bastonata al Pd e all’establishment economico, politico e mediatico di questo paese risuonerà a lungo. Particolarmente ironico è il fatto che stavolta, in particolare al sud, la logica del «voto utile contro la destra» abbia favorito soprattutto i Cinque Stelle: una nemesi storica non da poco, per il Pd, che sul voto utile aveva costruito tutto il suo percorso dal 2008 in poi. Difficile non pensare alla miopia che ha impedito la costruzione di una coalizione tra il M5S e i partiti della sinistra: sarebbe stata un’occasione storica per superare il Pd e rovesciare i rapporti di forza nel campo democratico, per la prima volta.
Guardando i risultati di Pd e M5S, esce un quadro piuttosto chiaro: le cose successe nell’ultimo anno e mezzo, intorno alla nascita e alla caduta del governo Draghi, regalando una rendita di posizione clamorosa a FdI e spaccando il fragile centrosinistra del governo Conte II, hanno prodotto in maniera diretta e artificiale una vittoria della destra radicale che, altrimenti, non sarebbe stata affatto scontata. C’è una timeline alternativa in cui a gennaio 2021 si è andati a votare e Giuseppe Conte se l’è giocata fino all’ultimo voto con Giorgia Meloni per la maggioranza di voti e seggi. Quel centrosinistra era fragile in tutte le sue componenti, e infatti crollò senza colpo ferire. Ma era anche, sul piano meramente elettorale, un’alternativa concreta e potenzialmente maggioritaria alla destra. Ricostruirlo sarà più facile da domani? Difficile dirlo. Nel Pd si è già aperta la resa dei conti, e a oggi un’ulteriore svolta a destra, sotto la leadership del presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, sembra l’outcome più probabile, in attesa di conoscere chi lo sfiderà. Dall’altra parte, la trasformazione dei Cinque Stelle in un partito socialdemocratico a oggi è solo una tattica di campagna elettorale, ed è tutto da dimostrare che il progetto «peronista di sinistra» di Conte prosegua senza nuove edizioni del trasformismo a cui partito e leader ci hanno abituato. Per la costruzione anche solo del moderato centrosinistra che su queste pagine criticheremmo ma che probabilmente convincerebbe abbastanza italiani da competere con la destra, mancano tuttora i necessari riferimenti e legami sociali e non si vede l’interesse a costruirli.
Di certo esce nettamente sconfitta da queste elezioni la cosiddetta «agenda Draghi»: a destra, chi era all’opposizione (FdI) ha un successo clamoroso ai danni di chi invece (Lega e Forza Italia) ha sostenuto l’ex presidente della Bce. Nel centrosinistra, da quando il Pd ha scelto di ergersi a erede del draghismo contro i Cinque Stelle complici della sua caduta, centinaia di migliaia di voti hanno lasciato il primo per approdare ai secondi. Chi ci ha raccontato per mesi della popolarità del «governo dei migliori» e delle fantomatiche «mobilitazioni senza precedenti» che ne avrebbero pianto la caduta, mentiva sapendo di mentire. Il governo Draghi, prigioniero dell’immobilismo insito nella sua coalizione eterogenea, ha fatto poco e convinto pochi, ed esce drammaticamente sconfitto da queste elezioni.
Il 7,8% preso da Azione e Italia Viva, autonominati eredi diretta dell’esperienza del governo Draghi, è un risultato ben al di sotto dell’obiettivo a due cifre che si erano posti i suoi promotori (Carlo Calenda ha parlato per settimane di 20%) e anche del 10,6% portato a casa da Mario Monti, in condizioni ben più difficili, nel 2013. Alla fine i voti rosicchiati alla destra, e in particolare a Forza Italia, sono stati pochi, e il grosso del danno è stato fatto al Pd, favorendo ulteriormente la destra nei collegi uninominali. Un disastro tattico che però salva Matteo Renzi dalla scomparsa politica a cui altrimenti il suo micropartito sarebbe stato condannato e piazza Calenda tra gli attori della politica nazionale, per quanto marginale. Partirono per diventare Macron, arrivarono a essere una cosa simile all’UdC di Casini e Cesa nella Seconda Repubblica. Ma l’UdC di Casini e Cesa ha determinato parecchio, ai suoi tempi. Resta da vedere quanto durerà il sostegno nei confronti di Calenda e Renzi da parte dell’establishment economico e mediatico: la cosa più probabile è che nei prossimi giorni sulla grande stampa borghese inizino ad apparire pensosi editoriali sulla svolta moderata, europeista e responsabile di Giorgia Meloni, e che i poteri forti di questo paese, come sempre, preferiscano accomodarsi alla corte del vincitore.
La sinistra e l’opposizione che viene
A sinistra le cose, nel bene e nel male, sembrano non cambiare mai. L’alleanza tra Sinistra Italiana e Verdi si attesta al 3,6% e l’Unione Popolare di Luigi De Magistris all’1,4%: entrambi poco sopra ai risultati percentuali rispettivamente di Liberi e Uguali e Potere al Popolo di quattro anni fa, ma solo grazie al calo dell’affluenza. I voti assoluti, in entrambi i casi, sono sostanzialmente gli stessi. Entrambi i progetti erano nati, con cognizione di causa, nel contesto del «campo largo» tra Pd e M5S: la prima per starci dentro, caratterizzarlo su determinati temi, darci battaglia per ancorarlo sulle questioni sociali ed ecologiche; la seconda per sfidarne le contraddizioni dall’esterno, presentandosi come la forza antisistema che propone un’alternativa fuori dal quadro della compatibilità. La rottura di quello schema ha messo in grosse difficoltà entrambe: Sinistra Italiana e Verdi si sono trovati (e hanno scelto di trovarsi, perché l’inerzia non è l’unica forza in politica) in una coalizione più piccola e più draghiana di quella che avevano pensato, e ciò ovviamente comporta perdite di voti a sinistra, per quanto in parte compensate dall’afflusso di delusi dal Pd; Unione Popolare si è trovata l’elefante del M5S in cortile, difficile da abbattere con la cerbottana, in una campagna elettorale molto breve e molto televisiva, con una leadership comunicativamente molto abile ma non freschissima sui temi, e in un contesto in cui gli spazi per la sinistra esterna al centrosinistra si sono da tempo ristretti. Ilaria Cucchi sarà in parlamento, e con lei una piccola truppa di oppositori di sinistra e ambientalisti a Meloni, e questa non può non essere una buona notizia. La sfida della costruzione di una sinistra in grado di non dipendere dal Pd per esistere resta aperta.
Il grosso degli elettori e delle elettrici di sinistra, quantomeno potenziali, si è diviso tra l’astensione e il sostegno al Movimento Cinque Stelle. In questo senso, questa tornata sembra aver estremizzato ciò che si era già visto nel 2018: la forza propulsiva della sinistra novecentesca si è esaurita. I progetti nuovi che nascono, anche a sinistra, non sono in nessuna continuità con quell’eredità, e gli elettori scelgono liberamente volta per volta senza alcun vincolo di appartenenza. Il voto di massa da sinistra ai Cinque Stelle mostra questo: ogni vincolo è saltato, essere «di sinistra» è un’appartenenza culturale che non si riflette automaticamente nell’identificazione con organizzazioni politiche, anche perché le organizzazioni politiche poi molto raramente appaiono sulla scheda, sostituite da aggregazioni occasionali. Si tende a votare volta per volta l’aggregazione considerata più utile in quel momento, in termini di forza relativa, per temi e battaglie che stanno a cuore, senza che ciò implichi un’adesione di fondo. Una scissione tra partecipazione e rappresentanza, tra militanza e voto, con cui, almeno nella lunga transizione che stiamo attraversando, non si può non fare i conti.
Ora la sfida è quella dell’opposizione al futuro governo Meloni, e del difficile equilibrio tra la necessità di costruire mobilitazioni ampie e trasversali, in grado di parlare, se non agli elettori della destra, quantomeno a quel terzo di italiani che non ha votato (e a chi – cioè una parte importante dei ceti popolari – non ha diritto di voto in quanto migrante), e il rischio di finire in un frontismo spoliticizzato senza alcuno sbocco che non sia l’appello e l’applauso al ritorno della tecnocrazia. Ci aspettano mesi in cui temi come il carovita, con le sue conseguenze economiche potenzialmente esplosive in termini di occupazione, le questioni di genere probabile oggetto dell’offensiva della destra e l’emergenza climatica sempre più stringente non potranno non essere all’ordine del giorno. Affrontare con intelligenza questa fase, rovinare la «luna di miele» a Giorgia Meloni e costruire sul campo l’alternativa al suo oggi fragile successo: la sfida non è da poco, e ci sarà bisogno di idee, energie, organizzazione.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino)."
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Il Ponte, 22 Settembre 2022. Luca Michelini.
"Non esiste un’ampia letteratura scientifica sul partito di Fratelli d’Italia. Fino agli inciampi politici della Lega, del resto, FdI sembrava essere un partito privo di alcuna centralità politica. Il governo Draghi, riunendo tutti gli altri partiti (esclusa SI, certo, tuttavia marginale sul piano parlamentare e tradizionalmente succube del Pd), ha fatto il gioco di chi stava all’opposizione. Manca, soprattutto, un’indagine sistematica sulla cultura e sul profilo sociale della classe politica di questo partito. Mi concentro, dunque, solo su alcune fonti di informazione: anzitutto sul programma, che è pubblicato sul sito del partito.
La prima cosa che si può evidenziare è una certa continuità storica con una parte della tradizione della destra italiana, che affonda le proprie radici nel Ventennio. Con questo non voglio rispolverare la questione della natura ancora fascista del partito, accodandomi al coro di chi, in vista delle elezioni, sventola il pericolo nero dopo aver fatto di tutto, sul piano politico e sociale, per alimentarlo. Mi limito, invece, a constatare linee di continuità, segnalando anche quelle di discontinuità. Il mio intento non è polemico, ma analitico. In ogni caso, nel simbolo del partito ancora campeggia la fiamma tricolore, segno di una ricercata e ostentata continuità.
La destra fascista appare come il riferimento culturale e soprattutto programmatico del partito. Sì, perché il fascismo ha avuto una destra e una sinistra, che ha avuto un afflato sociale, come sappiamo. La destra fascista aveva come punto di riferimento una cultura economica saldamente ancorata alla tradizione liberale ed esaltava la cosiddetta libertà del lavoro. Negli anni venti questa libertà aveva un connotato esplicitamente e fondamentalmente antisocialista e antidemocratico, avversando qualsivoglia politica economica redistributiva. Rivendicava, contro l’invadenza dello Stato, la libertà di impresa e rintuzzava, criticandola aspramente, quella parte del fascismo che aveva proponimenti sociali e organicisti. Auspicava e praticava il pareggio di bilancio e politiche di austerità, riproposte, sul piano teorico, persino di fronte alla Grande Crisi del ’29, risolta, del resto, con una drastica deflazione salariale, nonché imputata, come avviene anche oggi, agli eccessi della finanza e non ai meccanismi dell’economia reale.
Questa libertà di impresa la ritroviamo oggi nell’idea proposta della flat tax (da introdurre sugli incrementi di reddito, per verificare la tenuta del bilancio e da applicare solo alle imprese «che producono in Italia»), del tendenziale pareggio di bilancio, nella tendenziale diminuzione del ruolo dello Stato in economia. Tra i vari autori citati, il programma menziona Ludwig von Mises, caposcuola della scuola austriaca, fermamente avversa di ogni forma di socialismo: da quello vero e proprio al cosiddetto socialismo di Stato, cioè quella corrente di pensiero che alimentava politiche sociali per smorzare l’avanzata del socialismo e per allargare, in modo paternalistico, le basi sociali dello Stato.
Tutto ciò non implica affatto una rinuncia alla difesa dei settori strategici dell’economia: non si tratta di un dottrinario liberismo, dunque, quanto di un’idea di protezionismo volto a difendere e a valorizzare l’industria italiana. La collaborazione tra Stato e mercato non è affatto esclusa, come da tradizione liberista, attenta a valutare l’alternativa liberismo/protezionismo caso per caso e nelle circostanze storiche date. Cassa depositi e prestiti deve svolgere un ruolo importante, per esempio. Le imprese multinazionali devono pagare le tasse dovute e si depreca il fenomeno della delocalizzazione, in un quadro dove si deve valorizzare la piccola impresa, anche commerciale, operando un «bilanciamento allo strapotere della grande distribuzione».
Colpisce il fatto che il partito non si soffermi sulla forma specifica che deve assumere la relazione tra Stato e mercato: nessun cenno, per esempio, al modello Iri o alla necessità di mettere a punto un nuovo schema istituzionale capace di creare e indirizzare la politica industriale. Sembra, insomma, che le sole nomine ministeriali potrebbero cambiare la sorte dell’economia italiana, evidentemente al momento giudicata carente di una politica industriale vera e propria. Uno sforzo teorico e programmatico in questo ambito è insomma assente. Non va tuttavia dimenticato che il modello italiano del rapporto tra Stato e mercato sviluppatosi durante il Ventennio non fu affatto la realizzazione di un programma ideologico e teorico, quanto il frutto delle necessità imposte dalla crisi del ’29, che spinsero Mussolini a valorizzare il modello liberale italiano, che ebbe come indiscusso protagonista Beneduce, vicino, ai primi del Novecento, al riformismo socialista e al radicalismo di Nitti. Ma il paradigma Beneduce oggi è scomparso, così come l’Iri e il richiamo alla funzione di Cassa depositi e prestiti è del tutto privo di una cornice strategica istituzionale capace di offrire un organico e dinamico intreccio tra Stato e mercato. Di programmazione economica non si parla, a differenza di quanto avvenuto nel corso del Ventennio: evidentemente, si tratta di ragionamenti che sposterebbero troppo a sinistra.
In questo contesto programmatico spicca la critica, in verità assai vaga, alla moneta unica europea: se il Quantitative Easing fosse stato utilizzato nel 2011 «si sarebbe evitato il lungo inverno dei governi non scelti dal popolo». Viene criticato il burocratismo di Bruxelles (paragonato al bolscevismo) e lo strapotere economico della Germania, alimentato dall’attuale assetto europeo, che se non approderà a politiche di bilanciamento tra gli Stati non potrà che spingere a mettere in crisi la moneta unica. La Banca d’Italia, così come le sue riserve auree, vogliono essere nazionalizzate. Il sistema bancario deve essere oggetto di una commissione parlamentare d’inchiesta, evidentemente per l’insoddisfazione che l’attuale modello presenta: si vuole cioè tornare, come nel Ventennio, a una netta separazione tra credito commerciale e credito industriale, cioè superare quel modello che ha dato vita alla spericolata finanziarizzazione dell’economia a cominciare dagli anni novanta. Rimane tuttavia imprecisato il progetto che il partito ha in mente.
L’economia non è analizzabile e governabile dal lato della domanda. Il riferimento a Keynes non c’è, perché rimandare le politiche espansive sul lato della domanda alla sfera europea, per altro da riformare in senso federalista, appare davvero utopistico: a conferma di un’impostazione sostanzialmente classica del rapporto tra Stato e mercato. Il problema sociale, in ogni caso, va affrontato – nessuno deve vivere di stenti – ma si rifiuta il modello dei 5 Stelle imperniato sula reddito di cittadinanza.
Della tradizione sociale della destra rimane così assai poco, se non il vago richiamo al partecipazionismo dei lavoratori agli utili d’impresa, un tema, come noto, trasversale sul piano dottrinale, sottolineato dalla tradizione cattolica. Valorizzata anche con un cenno al ruolo del Terzo settore e al principio di sussidiarietà. Nessun approfondimento, invece, sul ruolo dei sindacati (sì al principio delle tutele crescenti «senza alcuna demagogica apertura alla reintroduzione dell’articolo 18») e dunque alla tradizione del corporativismo, abbandonato anche sul piano istituzionale. In materia, invece, si spinge per il modello presidenziale (nel pantheon compare De Gaulle) o l’elezione diretta del capo del governo. Manca il tema delle diseguaglianze: tra Nord e Sud, tra uomini e donne, tra ceti sociali. Nessun riferimento alla crescente sperequazione sviluppatasi negli ultimi trent’anni.
Non deve sorprendere il fatto che l’odierna rivendicazione della libertà del lavoro non abbia come punti di riferimento polemici il movimento politico dei lavoratori, né la democrazia, anzi rivendicata come fondamento del sovranismo. Il panorama italiano odierno, infatti, si caratterizza, a livello europeo, per la totale assenza della sinistra storica e per un crescente svuotamento delle istituzioni democratiche. Sul piano sociale la sinistra è scomparsa, data l’ossificazione dei sindacati e il cambio di natura del movimento cooperativo e l’appiattimento sull’associazionismo di matrice cattolica. Sul piano politico è assente un partito strutturato in grado di riannodare i fili della tradizione italiana novecentesca. Anche i 5S hanno rinunciato a riempire questo spazio politico e il distacco di Conte dal governo Draghi appare come fuori tempo massimo e privo di una solida filosofia sociale di riferimento. Il Pd è un partito liberale, tutto intento a costruire un fantomatico centro all’insegna della c0siddetta agenda Draghi, cioè tra i protagonisti delle privatizzazioni italiane e delle disinvolte e socialmente spietate ricette neoliberiste imposte all’Italia, con Monti, e alla Grecia. Infine, coloro i quali si presentano alla sinistra del Pd o non hanno alcun peso (SI e altri) o, come il partito di Bersani, sono anch’essi una costola, con vaghissime pulsioni sociali, del liberalismo, ormai superata dai tempi, che esigono uomini nuovi, senza alcun legame con il passato novecentesco.
Non può dunque sorprendere che l’adesione di FdI ai principi della libertà del lavoro non si nutra di antisocialismo. Al contempo, si deve constatare come l’immenso spazio politico aperto dalla scomparsa di qualsivoglia sinistra non voglia essere occupato. Non c’è alcun tentativo di innovare, sul piano economico e politico, la tradizione della destra sociale.
Gran parte del programma di FdI è dedicata all’idea di nazione italiana, insistendo sul tema del patriottismo, che avrebbe conosciuto una caduta irreversibile con «la crisi del ’43», che segna l’inizio di una stagione dove «nessun soggetto politico italiano poté più permettersi di perseguire l’interesse nazionale». Anche solo un accenno ai disastri militari dell’Italia fascista avrebbe giovato, mi permetto di osservare, poiché essi segnano il crollo di un regime che vantava tra le proprie matrici ideologiche il bellicismo (si veda la voce fascismo del Dizionario Treccani firmata da Mussolini). La politica è il campo del realismo e appare singolare strologare di riappropriazione di sovranità senza analizzarne le reali ragioni di decadimento. Tra l’altro, stona l’idea di promuovere una missione internazionale di terra «per prendere il controllo dei porti da cui partono i barconi della morte»: stona, perché l’Italia avrebbe dovuto farlo, ai tempi del governo di centrodestra, in occasione della sciagurata guerra contro Gheddafi. Il rischio, insomma, è di riproporre la retorica della sovranità nazionale, piuttosto che la sua effettiva realizzazione.
I richiami ad autori come Gentile e Renan rimandano alla tradizione del Ventennio e si concretizzano in una serie di rifiuti. FdI è contro lo jus soli e lo jus culturae. Si oppone alla cessione di sovranità alla Ue. Vuole opporsi a quella che viene paventata come una incipiente islamizzazione e una «vera e propria sostituzione etnica» compiuta dall’immigrazione. Si oppone al «multiculturalismo e al politicamente corretto». Si oppone all’odio razziale nutrito dagli immigrati (tra l’altro, «l’immigrazione non è un diritto») nei confronti delle popolazioni che li accolgono, così che si fomentano antistoriche «teorie suprematiste della razza bianca»: va ricordato come durante il Ventennio vi fu chi nel fascismo criticò il razzismo biologico tedesco, anche se poi si accodò alle scelte del regime. FdI si oppone alla laicità dello Stato valorizzando la cultura cattolica e la famiglia tradizionale. È contrario alla liberalizzazione delle droghe (quelle leggere).
Lo Stato, insomma, ha ancora una funzione di educazione morale nei confronti dell’individuo e non diviene uno strumento per l’affermazione della sua piena e totale libertà morale. Gadamer insegna che non esiste il puro individualismo, essendo tutti noi frutto di un percorso storico ineliminabile e che deve costituire il cemento della nazione.
Particolare attenzione viene data ai corpi della sicurezza nazionale. Non si parla, tuttavia, di ritorno alla leva obbligatoria universale. Un paragrafo è dedicato al principio «Prima gli italiani» eppure pochissima attenzione è data alla scuola di ogni genere e grado (va accorciato il percorso scolastico per aprire prima i giovani al mercato del lavoro), anche se spicca la proposta di creare un sistema statale di asili nido, par di capire gratuiti: il problema è quello, classico per la cultura del Ventennio, del calo demografico. Il fisco deve valorizzare la famiglia: quindi sì al quoziente famigliare in ambito fiscale. Non vi è però nessuna insistenza sulla conservazione e il rilancio della civiltà e della cultura italiane. Per valorizzare il patrimonio artistico, deducibilità dal reddito delle spese culturali individuali: evidentemente l’offerta culturale attuale soddisfa. L’inglese deve diventare lingua fondamentale, ma della tutela della lingua italiana non si parla: e la lingua è la cultura e il cemento di un popolo.
Nel pantheon di FdI manca, curiosamente, Pareto, ma ciò conferma una certa continuità storica con il vario organicismo del Ventennio: perché lo Stato viene considerato come strumento fondamentale per la costruzione della nazione, cioè come interprete, nelle sue élites, degli interessi generali, cioè di tutti i ceti sociali, anche di coloro che, a differenza delle élites, non hanno coscienza dei propri reali interessi e bisogni. Pareto, che pure ha ispirato molti intellettuali del ventennio – Mussolini si proclamava suo discepolo e basti sfogliare Dux della Sarfatti –, aveva invece una concezione molto più prosaica dello Stato e della funzione delle ideologie (i miti) che elaboravano coloro che lo controllavano. Si trattava di élites che se ne servivano, tanto dei miti che dello Stato, per soddisfare i propri bisogni, scaricandone il costo sulla collettività, nel contesto di uno scenario di lotta permanente tra élites, all’interno degli Stati, e tra Stati, per l’egemonia sui mercati mondiali. Dio, patria e famiglia è lo slogan riproposto da FdI, lasciando intendere che compito dello Stato è costruire l’adesione degli individui agli ideali delle élites tradizionali. Colpisce la polemica contro l’Illuminismo, concepito, sembra di capire, come fondamento di un individualismo cieco e dirompente per la società perché corrosivo dei valori “tradizionali”. La struttura gerarchica disegnata dal mercato, di cui tuttavia non si colgono le contraddizioni e le conflittualità intrinseche (in linea con la tradizione liberale che si è disfatta degli economisti classici), deve insomma trovare una sintesi, cioè la sua cristallizzazione e giustificazione, attraverso l’adesione morale ai valori di Stato: «amare la propria patria e sentirsene parte attiva è l’unica ricetta in grado di produrre coesione sociale e generazionale». Non si tratta di “autoritarismo”, quanto di riscoperta della “autorità”, cioè quella «autorevolezza che nasce dalla rivendicazione e dal riconoscimento […] di una superiore facoltà di conoscenza e migliore capacità di giudizio nell’interesse comune». L’omologazione degli individui operata dal mercato (che produce «cittadini-consumatori senza storia, senza radici, senza identità, senza patria, senza comunità, senza religione e senza sesso») trova un argine nel “populismo identitario”, che ormai dilaga in tutta Europa.
Nessuna eccessiva polemica nei confronti dell’egualitarismo (anche se un cenno c’è: «l’uguaglianza economica» – per inciso davvero difficile da definire – «non è una finalità etica che attiene allo Stato»), tuttavia, e viene rimarcata la necessità di aggredire il tema delle periferie urbane: manca, però, alcun accenno al tema della pianificazione urbanistica, che pure durante il Ventennio ebbe un ruolo decisivo e innovativo. Dubito che tanta vaghezza potrà soddisfare il tradizionale elettorato laziale, sebbene venga ribadita la centralità di una politica specifica per Roma capitale.
Sul piano internazionale le proposte sono molto timide e vaghe, proponendo il tema della piena sovranità nazionale, ma senza avventurarsi in discussioni circa le alleanze internazionali e, più in generale, delle relazioni internazionali. Si guarda con attenzione al Gruppo di Visegrad e si vorrebbe modificare la Costituzione per inserirvi, come in Germania, una «riserva di sovranità che impedisca l’adesione a trattati e accordi internazionali» e regolamenti che ledono «il nostro interesse nazionale e mettono in discussione la sovranità popolare». Scritto prima della guerra russo-ucraina e della prospettiva di governo, che, è bene esserne consapevoli, impone inevitabilmente l’assecondamento della politica estera americana quale che sia (e infatti Giorgia Meloni si sta accreditando presso i circoli del potere americano, avendo come punto di riferimento i Repubblicani), il programma scriveva che «non condividiamo la logica di ostilità nei confronti della Federazione russa». Per il Medio Oriente si dichiara la linea dei due popoli due Sati per Israele e Palestina.
La sensazione che si ha nel leggere il programma è quella di uno sforzo teorico di un certo respiro, perché volto a proporre una carrellata di autori e di idee che hanno un preciso significato per la classe politica del partito e per i suoi storici militanti. Svolge cioè il ruolo di rinsaldare le fila e di ribadire una precisa appartenenza, che si distingue perché esclude chi, per formazione, ne è estraneo. Il richiamo a Veneziani è significativo, perché è un autore instancabile nel tenere viva, su un piano divulgativo (il che non è affatto una diminutio) una certa tradizione culturale. Alcuni di questi autori sono forse troppo esili per un pantheon, ma rimangono importanti per gli ammiccamenti che sottendono. Mi riferisco, per esempio al richiamo a Galli Della Loggia, cioè a uno degli intellettuali organici più significativi del «Corriere della sera»: testata sempre in prima fila nel ribadire la validità del (tendenziale) liberismo atlantista e molto cauto e timido – anche se con eccezioni – nel criticare le performances politiche dell’imprenditoria italiana.
Ho richiamato Pareto non a caso: è a lui che si deve la riproposizione della riflessione di Adam Smith circa l’inadeguatezza della borghesia imprenditoriale al governo della cosa pubblica. Voleva sì un governo della borghesia, ma ancora non era arrivato a concepire possibile l’assenza dell’intermediazione di un ceto politico distinto da quello che si dedica esclusivamente agli affari. FdI sembra insomma ancorato al modello berlusconiano, che appunto ha fatto venir meno questa intermediazione: fra l’altro, sottoponendo lo Stato al ricatto che altri Stati possono esercitare insidiando le basi proprietarie del suo leader. FdI non propone alcuna critica di questo modello, anche se nei fatti ne costituisce un’alternativa perché è un partito classico, non un partito-azienda.
Molto utopistico pensare che la forza del mercato possa sopportare un qualsivoglia tipo di imbrigliamento morale. Il rimpianto della tradizione non ha in effetti dei referenti sociali a cui ancorarsi, come nell’antico regime (chiesa, nobiltà, esercito): i ceti sociali che in trasparenza appaiono un riferimento, cioè la piccola e media borghesia, valorizzano la tradizione in quanto la sovrappongono alla propria storia patrimoniale e professionale e criticano il mercato solo quando la sua logica ne insidia le posizioni. I miti e le ritualità che si rimpiangono nel programma, al momento vivono, di fatto, di antistoriche nostalgie intrinsecamente incapaci di resistere all’impeto del mercato. La mercificazione del mondo si fa beffe di qualsivoglia tradizione, che stritola senza posa.
Sarà solo la storia a dirci in quale modo verrà risolto il rapporto tra Stato, mercato e partito, in caso FdI arrivasse a esprimere il capo del governo. Una cosa è certa, tuttavia: i più temibili avversari che troverà sulla strada saranno proprio i suoi alleati, che non molleranno tanto facilmente la presa. In barba a tutti coloro che li hanno dati, con riferimento soprattutto al fondatore di Forza Italia, per morti politicamente.
Sarebbe azzardato sostenere che l’odierna dialettica politica italiana sia dominata dalla lotta tra differenti tipologie di borghesia, come insiste a sostenere il liberismo di sinistra (il Pd): da un lato la borghesia corporativa e protetta dallo Sato, fondata dunque sulla rendita economico-politica, e, dall’altro lato, la borghesia concorrenziale e innovativa, che il Pd e i 5S (l’economia verde) vorrebbero impersonare. È in fondo condivisibile lo stupore e l’incredulità che Giorgia Meloni ha manifestato nei confronti delle dichiarazioni di Laura Boldrini, quando ha argomentato l’inadeguatezza al governo di FdI in quanto espressione della rendita economica. Il riferimento era alla battaglia di FdI a favore degli storici concessionari delle spiagge, che tentano di resistere alla proposta liberalizzatrice di Draghi. È condivisibile, se solo si pensa alla vicenda di Autostrade, che ha visto il governo giallo-rosa rimanere succube della logica di un grande gruppo privato, che deve le sue fortune alle privatizzazioni scriteriate degli anni novanta. E che ha suscitato il malumore di tutta quella grande borghesia (come testimoniano gli editoriali di «Domani», di «Libero», di «La Verità») che si è vista trattare in modo differente.
L’alternanza al potere tra centrodestra e centrosinistra non è tra due differenti tipi di borghesie, ma in effetti vede combattersi cordate contrapposte di entrambe le borghesie, che a turno sgomitano per accreditarsi come migliori presso i poteri internazionali, cioè quegli Stati che attualmente si contendono l’egemonia in Occidente. Questa è la radice del trasformismo odierno: si sale sul carro del probabile vincitore, per assicurarsi un trattamento di favore. Il risultato, fino a oggi, non è certo quello di realizzare né l’interesse generale per la borghesia italiana nel suo complesso, come dimostra l’estrema difficoltà del paese nelle relazioni internazionali, né per tutti i ceti sociali del paese, che di fatto non hanno più una rappresentanza parlamentare, come indica la crescente astensione dal voto. Inoltre, la subordinazione di gran parte dell’apparato pubblico (scuola, ricerca, sanità, pubblica amministrazione) alla logica del mercato, genera in effetti gravi inefficienze, mettendo in crisi le stese forze di mercato, oltre che minare qualsivoglia “tradizione”. Colpisce la mancanza nel programma di FdI di riferimenti a questi settori, chiave per lo sviluppo del paese: che invece durante il Ventennio ebbero particolare attenzione da parte del regime. Evidentemente manca la capacità di comprenderne la funzione sociale, storica e odierna. Anche l’insistenza sul lato repressivo e securitario dimostra una forte ritrosia ad affrontare in modo scientifico e dunque realmente libero alcune piaghe sociali spaventose tipiche non solo dell’Italia, come la mafia, la droga, l’evasione fiscale. Se ne temono, a torto, i risultati, ritenuti pregiudizialmente dissolutori per la società.
Se la rivendicazione di una certa continuità storica è evidentemente funzionale a costruire l’identità di gruppo, il discorso programmatico complessivo dimostra che non si è affrontato seriamente il rapporto con il passato fascista. Manca, cioè, la capacità di analizzare sul piano scientifico questo momento storico valorizzando quegli aspetti di modernizzazione che conteneva, per rigettarne, al contempo, con forza e definitivamente, gli aspetti perversi e distruttivi proprio della nazione italiana: che, ribadisco, proprio alla guerra fascista deve la perdita di sovranità e solo dopo la crisi del ’43 conobbe l’inizio di un reale processo di democratizzazione. La valorizzazione della Resistenza si dimostra ancora un tabù e prevale lo scontro ideologico.
Il programma sociale di FdI è insomma ancora molto elitario ed elitistico e lascia completamente scoperta la questione sociale, nemmeno più affrontata sul piano paternalistico: alla quale evidentemente guarda come possibile serbatoio di voti, ma non come momento fondante di una nuova politica e di una nuova società. È sulla rabbia che conta, e certo non sbaglia, perché i tradimenti subiti dall’elettorato italiano progressista sono davvero infiniti e la legislatura che va chiudendosi ne costituisce l’apogeo; e le diseguaglianze sociali si stanno sempre più approfondendo. Ma senza un consenso sociale vero e articolato, senza un dialogo effettivo con altre culture politiche, senza introiettare pienamente ed effettivamente i valori della Costituzione, senza il superamento del modello berlusconiano (e la vista del potere spinge FdI a rinsaldare l’alleanza con Fi e Lega, invece che provare a conquistarsi l’egemonia in solitaria), sarà molto difficile sopravvivere, anche da posizioni di governo, alle forze neoliberali e alla politica estera di altri Stati europei, che possono contare su strumenti potentissimi, come abbiamo già avuto modo di sperimentare negli anni dell’austerità. Infilarsi a capofitto nell’identitarismo gerarchizzante, xenofobo e securitario significa alimentare il dilagante nazionalismo europeo, da cui non è mai sortito nulla di buono e comporta dare, di fatto, man forte proprio a quelle logiche neoliberiste che stanno completamente disarticolando la convivenza civile.
Forse è però questo il compito storico di FdI: far rinascere in Italia una forza politica capace di riagganciarsi ai valori della Costituzione per spingere verso un’Europa e un’Italia sociali e, contemporaneamente, profondamente radicate nella democrazia. L’auspicio è che il prezzo non sia paragonabile a quello pagato nel corso del Novecento con devastanti guerre civili e con due guerre mondiali. Purtroppo, gli scenari europei attuali non fanno affatto ben sperare."
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Terzogiornale, 26 Settembre 2022. Michele Mezza.
"Da Stoccolma a Roma, una cortina reazionaria sta calando sull’Europa. Si potrebbe parafrasare il celeberrimo ammonimento di Churchill sulla cortina di ferro per dare un contesto più organico e completo alla vittoria della destra in Italia. Quanto è accaduto domenica, infatti, non è l’effetto di insipienze e pasticci di dirigenti incapaci o inadeguati; tanto meno l’effetto di prodigiose campagne elettorali. Certo, è anche questo – ma, come sempre in politica, la soggettività segue l’oggettività, e la fragilità dei vertici è la proiezione di ambiguità ed eclettismi della base sociale. Se continuiamo ad avere questo atteggiamento tipicamente conservatore, per cui la politica la fanno i leader, questo è già un modo per ratificare la vittoria dei postfascisti. Dobbiamo essere di sinistra proprio nella fase dell’analisi e della lettura delle dinamiche sociali; altrimenti, come diceva Albert Einstein, “se continuiamo a fare le stesse cose, accadrà quello che è sempre accaduto”.
In un magnifico film di Luigi Magni, In nome del Papa re, un grande Manfredi che interpreta un abate di curia, parlando con un cardinale alla vigilia di Porta Pia, gli dice: “Eminenza, qui non è che finisce tutto perché arrivano i piemontesi, qui arrivano i piemontesi perché è finito tutto”. Cerchiamo allora di capire cosa e dove sia finito tutto prima dell’arrivo dei barbari.
Lo spostamento consistente e diffuso dell’elettorato italiano a destra è un processo che viene da lontano, e soprattutto ha una dimensione globale. Se proprio vogliamo dare un giudizio sintetico circa quanto è accaduto, potremmo dire che in Italia è cambiato poco dal 2018: i voti, che già videro una prevalenza delle componenti più populiste, si sono concentrati verso un’area più strutturalmente reazionaria, ma il campo della sinistra è rimasto sostanzialmente quello, dopo le mille contorsioni di questo quadriennio, in cui pandemia, guerra e recessione economica sembrano essere passate come acqua su vetro. In realtà, è cambiato il mix di interessi e di composizione sociale del voto di destra, così come lo è stato in Europa. La novità è la scelta vandeana della tranquilla imprenditorialità lombarda e veneta, ma anche questo è un dato tutto europeo.
Le elezioni – sia nella Francia del dualismo fra Macron e Le Pen, sia in Germania, dove alla debolezza del partito di governo di Angela Merkel non ha corrisposto un’avanzata della sinistra socialdemocratica, e ancora in Inghilterra, con il coriaceo radicamento di un governo apertamente classista, o nella radiosa Svezia del welfare, dove la socialdemocrazia si vede accantonata da una forza chiaramente radicalizzata a destra – ci dicono che il tramonto, ormai irreversibile, del vecchio patto fra capitale e lavoro ha lasciato un cratere che la sinistra non riesce a colmare.
Questa è la matrice della sconfitta, non i balbettii di Letta o l’amalgama non riuscito del Pd. Siamo nel gorgo di una riclassificazione degli interessi di classe, in base alla collocazione di ceti e individui nei processi produttivi, che non hanno più niente a che fare con il lavoro come lo ricordiamo.
È davvero singolare che nessuno rammenti che Mirafiori, ancora dodici anni fa, era abitata da cinquantamila lavoratori, e oggi sono meno di ottomila; oppure che nel collegio di Sesto San Giovanni, nell’ex cintura operaia milanese, dove la figlia del fondatore di Ordine nuovo, Pino Rauti, ha battuto il figlio del deportato Fiano, al posto di trentamila lavoratori, occupati in cinque fabbriche, ci sono trentamila persone che lavorano in aziende che, al massimo, hanno un numero di dipendenti non superiore a tre.
Mentre ci si diletta con il folclore delle battute di Berlusconi su Tik Tok, ignoriamo che trentotto milioni di italiani quotidianamente affidano le proprie relazioni e linguaggi agli arbitrati di un algoritmo, che non è né di destra né di sinistra, ma sicuramente neanche neutro. È in questo intreccio fra social e mutazione genetica del lavoro che la sinistra si è dissolta – come dice Aldo Bonomi.
Insomma, abbiamo subito una sconfitta marxista, legata ai rapporti di produzione, a un cambio di mulino, avrebbe detto il grande vecchio di Treviri, e non alla psicologia di qualche candidato fragile. Una sconfitta che inizia nel 1989, quando con il Muro di Berlino crolla ogni possibile narrazione di una sinistra che ha voluto, o potuto, al massimo cambiare indirizzo e nominativo, ma certo non cultura, radicamento e identità. Siamo rimasti quelli delle feste dell’“Unità”, con il macabro paradosso di celebrarle senza “l’Unità”. E nel frattempo si automatizzava la vita, la produzione diventava un algoritmo, il consumo una profilazione, la politica un social.
Socialisti e comunisti si disperdevano, e poi sparivano ovunque nel mondo; e in Italia, come al solito, abbiamo pensato di essere più furbi di tutti, avendo anticipato il colpo, con il sotterfugio di cambiare il nome del Pci prima degli altri per non pagare dazio. Eppure avevamo pagato già duramente: prima nel ’94, con la discesa in campo di Berlusconi, e poi, successivamente con mille rimaneggiamenti e annacquamenti, fino a portarci in casa la mutazione genetica con la segreteria Renzi, che tagliò il cordone ombelicale con gli esecutori testamentari del Pci, ma senza che il nuovo potesse sostituire il vecchio che moriva – per tornare a Gramsci.
Ogni volta, avevamo l’alibi dell’emergenza per coprire il buco della rappresentanza sociale, con una pensata geniale per le elezioni: prima Prodi, poi il pragmatismo di Fassino, seguito dal famoso I care di Veltroni; successivamente, il tatticismo di Franceschini, quindi il velleitarismo di Bersani e l’ombra di D’Alema, che ne sapeva sempre una più del diavolo. Il partito si squagliava, e la sua evanescenza veniva coperta imbarcando avventurieri, questuanti, cacicchi e governatori. Le città diventavano musei della memoria, dove la sinistra si basava su anziani percettori di spesa pubblica, assediati da plebi delle periferie che cercavano – come diceva dei totalitarismi Hannah Arendt – di giocarsi un ruolo nella storia, anche a costo della propria distruzione.
La Lega rubò i secondi e i penultimi alla sinistra, che si illudeva di reggere con l’alleanza illuminista fra i primi e gli ultimi. Poi vennero i reazionari di massa, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, dove élite speculative si basavano sul consenso di moltitudini di emarginati, in cui ognuno era povero a modo suo.
In questo scenario – che caratterizza l’Occidente, da Trump alla Brexit –, in cui i ceti disagiati pensano e votano da ricchi rancorosi contro i privilegi delle élite liberal, attraversiamo le tempeste della pandemia e della guerra rinserrati nei nostri centri storici. La destra tesse una nuova trama di sovversione sociale, connettendo “no tax” a “no vax”, e indicando nella ipocrita democrazia occidentale il nemico di classe.
È la borghesia imprenditoriale, che apre la strada all’eversione di massa: la mascherina diventa, come il reddito di cittadinanza, l’emblema di un assistenzialismo parassitario. Qui sia la chiave di volta del ciclone Meloni: una solida alleanza sociale che combina l’antistatalismo predatorio della piccola e media azienda con l’assistenzialismo senza leggi dei ceti più periferici. Il lavoro non parla in questo gorgo, e, quando parla, riflette le ambiguità di essere parte di questa alleanza in componenti non limitate, come dimostra l’ambiguità della Cgil sui vaccini. Illuminante è una riflessione di Franco De Felice, alla fine degli anni Ottanta, quando coglie il formarsi di schieramenti sociali ibridi, attraversati da venature parassitarie e corporative di cui le aree operaie sono parte: “Il modo di procedere della crisi del welfare in Italia sembra risolversi nella definizione di due grandi schieramenti. Il primo comprende settori più colpiti dalla riorganizzazione e conversione industriale, ed anche quelle fasce sociali, o parti di esse, che hanno svolto un ruolo importante nella creazione di quel sistema di garanzie del reddito che tendono a difendere: uno strano intreccio tra sezioni del movimento operaio, settori produttivi maturi o tradizionali ed ampi strati burocratici o professionali, che hanno nei grandi apparati gestori della politica sociale le proprie radici. Un secondo schieramento annovera i settori più dinamici del capitalismo (soprattutto la piccola e media impresa) ed ampi strati sociali non tutelati, o vivacemente critici delle forme in cui le politiche sociali hanno trovato attuazione: un altro intreccio, non meno strano e singolare, ma non inedito nella storia italiana, fra liberismo privatistico e antistatalismo popolare-democratico. Si fa più chiaro che la crisi del welfare è un fattore di accelerazione di quella dello Stato-nazione” (Franco De Felice, La nazione italiana come questione. Dimensione e problemi della ricerca storica, 1993).
Una citazione lunga, ma che fotografa proprio il momento del big bang. Siamo appunto qualche anno dopo il fatidico ’89, in cui la classe operaia perde il suo ruolo di movimento complessivo politico scomponendosi in ceti rivendicativi e neocorporativi: la politica diventa una gilda, in cui ognuno cerca un proprio sindacalista che tuteli l’interesse momentaneo. Ogni elezione diventa, dunque, il confronto fra queste neocorporazioni che danno e ritirano la delega ai brand politici. La cosiddetta volubilità elettorale è l’effetto di questa dinamica di sindacalizzazione della politica.
In quest’ottica, la sequenza delle giravolte degli elettori, in questi anni, diventa più decifrabile e meno eccentrica. La massa dei lavoratori senza più missione diventa la base sociale di una vandea antistatalista, preda dei ceti più intraprendenti che, a cavallo della spesa pubblica, estraggono rendite dai nuovi servizi, decentrando la produzione prima al Terzo mondo, poi all’automatizzazione. A chi si parla nel deserto di Mirafiori, come si organizza il formicaio di Sesto San Giovanni? A queste domande non si risponde perché nessuno le formula. Si esorcizza la propria irrilevanza sociale con la visibilità, oppure il dinamismo digitale, sostituendo la rappresentanza con i click. Il partito è solo retrovia degli eletti, e il territorio lascia ai linguaggi emotivi della rete il compito di alfabetizzare chi vuole essere in prima linea.
Salvini coglie questa mutazione – e sposta il leghismo dall’eccezione regionale alla dimensione nazionale: una federazione di rendite per privatizzare lo Stato. È il modello della sanità lombarda, che miete migliaia di vittime nella pandemia, ma che nessuno denuncia come crimine contro l’umanità. Anzi, viene oggi declamato con la candidatura di Moratti al vertice della regione caldeggiata da Meloni. L’infatuazione per la Lega nazionale dura poco. In qualche mese si passa dal 30 % delle europee al precipizio dell’8%.
Nel Sud, il trasformismo ex Dc, che aveva puntato su Salvini, si trasferisce in parte sulla carovana postfascista, ma il nodo riguarda il Nord: perché il tappeto di imprese lombardo-venete, connesse all’indotto tedesco, che pure registrano fatturati stratosferici nei mesi successivi alla prima ondata pandemica, butta a mare Draghi per la Meloni? Questo è il quesito che dà nerbo alle elezioni: perché quel capitalismo molecolare, che aveva trovato un equilibrio, entra in agitazione e segue l’ondata sovranista? Siamo dinanzi a una nuova marca di capitalismo locale, opposto alla globalizzazione finanziaria internazionale, che vuole protezione e sostegno per sganciarsi anche dalla servitù tedesca. Il sogno è tramite le nuove tecno-strutture e una logistica concorrenziale, pronte addirittura ad affiancarsi se non a sostituire la locomotiva tedesca. Le banche del marco sono il nemico, non più il gigante da arruffianarsi con l’imitazione del modello bavarese. In questa svolta, c’è molto della svolta reazionaria: si immagina un modello olandese di spesa pubblica senza Stato, di sostegno senza programmazione, di innovazione senza socializzazione. E soprattutto senza fisco e sindacato. Siamo a un capitalismo estrattivo – come scriveva Mariana Mazzucato nel suo ultimo saggio Il valore di tutto (edito da Laterza).
Tre sono le strade per contrapporsi alla deriva olandese: il sindacalismo neocorporativo, quello che i grillini hanno inaugurato, quasi a loro insaputa, con i micro-contratti per il reddito di cittadinanza al Sud, in cui si cerca un capitalismo compassionevole che dia mance alle aree marginali di lavoro nero; la rincorsa di Calenda a un inesistente ceto medio riflessivo, che eredita parte del voto liberal del Pd, ma non morde la base sociale moderata, che ormai si è radicalizzata strutturalmente; infine la ricostruzione di una sinistra del conflitto cognitivo, che ridisegni la sua base sociale nei processi di assemblamento del capitalismo tecnologico, ritrovando negoziato e mediazione politica nell’organizzazione dei processi di contesa della titolarità dei saperi e delle tecnologie di relazione sociale. Stiamo parlando di un partito che si combini nelle università con i patti territoriali, nei distretti con le reti della logistica produttiva, nelle città con la competizione diretta con le metropoli europee. Un partito che assuma la questione sanitaria come base di un’idea di diritti universali e di scienza condivisa. Un partito che, sulla base di una capacità di conflitto e contrasto, possa poi anche estendere la sua tutela ai ceti marginali e periferici, integrando i reparti del lavoro in alleanze territoriali per uno sviluppo trasparente e programmato. Certo, un partito difficile, articolato, organizzato sui processi di partecipazione alle decisioni e non alle consultazioni. Un partito che produca e sostituisca costantemente i propri dirigenti, ogni volta che viene raggiunto un obiettivo.
Il congresso che Letta ha appena lanciato, cercando di renderlo precotto nei tempi lunghi, per un atterraggio morbido del suo contrattato successore, andrebbe convocato subito e tenuto permanentemente aperto: un congresso che sia un forum di accesso e partecipazione alle decisioni di un apparato sempre più spalmato sul territorio. Una vera costituente dei saperi e dei mestieri autonomi e trasparenti. Un congresso dei Grundrisse e non più della memoria del Capitale. Una follia – dirà qualcuno –, ma di quante cose apparentemente concrete e funzionali siamo stati vittima? Il comunismo, secondo Brecht, è quella cosa facile a dirsi ma difficile a farsi. Anche il riformismo lo è."
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Terzogiornale, 26 Settembre 2022. Paolo Barbieri.
"“Il Pd è ovunque”: così Wolfgang Munchau – influente analista politico conservatore, che scrive per il sito “Eurointelligence” – ha sintetizzato l’influenza che il partito guidato da Enrico Letta, almeno finora, ha sulla percezione europea della politica italiana. Spostandoci in casa nostra, si potrebbe dire che “il Movimento 5 Stelle non è in nessun luogo”. I ripetuti flop nelle elezioni locali e le tormentate esperienze amministrative in qualche grande città, lo storico veto dei fondatori Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio rispetto alla creazione di una struttura organizzativa sul territorio (e forme di democrazia interna meno evanescenti dei MeetUp e delle consultazioni online) ne hanno fatto, per anni, una sorta di fantasma, un logo che ritorna ciclicamente sul mercato.
Anche stavolta le elezioni politiche hanno confermato questa norma: e ha avuto gioco facile Giuseppe Conte a lanciare proclami trionfalistici già venerdì 23 settembre, nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale, in barba alla religione nazionale della scaramanzia: “Ci avevano dati per morti, ancora una volta si sono sbagliati!”.
Il Movimento ha realizzato un prodigioso recupero rispetto alle intenzioni di voto dei sondaggi estivi: dal 10% medio di fine luglio al 15 abbondante dei risultati reali – mentre scriviamo ancora da definire nei dettagli decimali –, con il dato aggiuntivo della conquista diretta di un corposo numero di collegi uninominali, che fino a pochi giorni fa erano considerati impossibili da strappare alla destra. Fermo restando il valore dei numeri assoluti, almeno altrettanto significativi delle percentuali: il M5S, rispetto ai dati del 2018, ha lasciato sul terreno milioni di voti; ma era una stagione che oggi appare lontanissima, quando Conte era ancora l’oscuro docente universitario destinato, originariamente, a fare il ministro della Pubblica amministrazione in un ipotetico governo Di Maio.
Le urne, quindi, riconsegnano al Paese la terza, forse la quarta edizione del Movimento-camaleonte, una versione che si presenta quasi come un “foglio bianco”, un progetto ancora incompiuto, a volere essere generosi. È il partito di Conte, non più il M5S – hanno ripetuto ossessivamente gli scissionisti draghiani, guidati da Luigi Di Maio –, rendendo un involontario servizio agli ex colleghi e confermando il fatto che il vecchio Movimento ha, per l’ennesima volta, cambiato pelle.
Dall’anti-casta ai governi con tutti
Il primo Movimento fu quello di Grillo e del “tutti a casa”, lo slogan più qualunquista, che interpretava in senso “anti-casta” la rivolta popolare sia contro lo screditato berlusconismo al tramonto, sia contro la deludente conversione dei progressisti alle ricette antisociali dell’austerità europea. Il secondo fu quello dell’ubriacatura governista, sballottato fra i no iniziali del Pd ai grillini e dei grillini al Pd, poi negli estenuanti negoziati a tre con Matteo Salvini e il Quirinale per il primo governo Conte (qualcuno ancora sorride, ricordando Luigi Di Maio invocare l’impeachment per Sergio Mattarella, per i suoi interventi sui nomi di qualche ministro sgradito), infine nella giravolta di alleanze del Conte 2, con l’avvio della tormentata convivenza con il Pd. Il terzo Movimento ha visto la luce con la pandemia.
Visibilità e protagonismo del giurista pugliese, molto criticati da una stampa in larga maggioranza ostile, hanno fatto breccia fra i cittadini in quella fase drammatica, stando a quello che i sondaggi di opinione certificavano, e trovato qualche riconoscimento anche a livello europeo, per la battaglia sul debito comune e il piano finanziario di rilancio (il cosiddetto Pnrr, che gli è poi costato il posto in favore del “commissario” Mario Draghi, chiamato a gestirne l’attuazione). Quella del governo Draghi è stata una parentesi, più sofferta che accettata da buona parte degli attivisti e dei parlamentari uscenti: imposta da un Grillo umanamente schiacciato da vicende personali e familiari, subìta da Conte, che osò addirittura opporre un “gran rifiuto” all’offerta della prestigiosa poltrona di ministro degli Esteri, si è chiusa con gli scontri a catena sulla guerra, il caro-energia, il superbonus e l’inceneritore di Roma.
La nuova fase: il riposizionamento
La scissione promossa da Di Maio e la rottura con Draghi hanno aperto una fase di ridefinizione del posizionamento politico del Movimento. C’era pochissimo tempo, ma la campagna elettorale è stata, da questo punto di vista, un successo. Un doppio successo se si pensa che, dopo la rottura col Pd, la scommessa per Conte era tenere in vita il terzo polo reale, opposto al terzo polo virtuale (molto amato da gran parte dell’informazione italiana) creato dalla comunicazione elettorale di Carlo Calenda e Matteo Renzi; mentre per il Nazareno la scommessa era quella di un riassorbimento della ribellione dell’elettorato grazie al classico appello al “voto utile”, con la proiezione di una condanna all’irrilevanza degli ex grillini, in caso di risultato sotto la soglia psicologica del 10%.
Che sia vero o meno quello che sussurra qualche osservatore interno di stretta osservanza contiana, cioè che la rottura del “campo largo” annunciata da Letta per punire i 5 Stelle ribellatisi a Draghi sia stata quasi consensuale, sta di fatto che gli esiti sono stati ben diversi per i due ex partner. Conte ha puntato tutto su un messaggio stringato, ripetitivo, di facile comprensione. No alla guerra, critiche alla Nato e all’Unione europea, enfasi su caro-bollette e crisi economica, difesa dei capisaldi programmatici del Movimento come superbonus, salario minimo e reddito di cittadinanza. Ha funzionato, a prestare orecchio alle malelingue a 5 Stelle, anche perché la regia della comunicazione elettorale è stata sottratta per una volta all’onnipresente e un tempo onnipotente Rocco Casalino e affidata al responsabile web Dario Adamo. Ma forse anche perché l’impacciato professore universitario degli esordi ha lasciato il posto a un esperto comunicatore, capace ormai di reagire con efficacia alle critiche nei talk show, e perfino di reggere tre quarti d’ora di comizio a braccio, come si è visto nella manifestazione elettorale conclusiva del 23 settembre. Manifestazione per la quale Conte e i suoi hanno scelto non casualmente piazza Santi Apostoli, luogo simbolo della stagione politica di Romano Prodi, un altro tassello del riposizionamento del M5S come forza progressista e alternativa al Pd.
Conte evita come la peste di definirsi “di sinistra”, ma rivendica la sua posizione “progressista”; accusa, con qualche buona freccia al suo arco, il Pd di avere rinunciato a competere con la destra, e di fatto di aver consegnato il Paese a Giorgia Meloni, ed è già in vantaggio, avendo sciorinato in questi mesi una piattaforma politica chiaramente di opposizione; mentre chiunque altro ambisca a opporsi al centrodestra dovrà fare i conti con la prudenza e la “moderazione” finora ostentate dalla leader di Fratelli d’Italia. Non sarà facile opporle l’agenda Draghi, anche se naturalmente su diritti civili, e in generale visioni culturali differenti, non mancheranno le occasioni di scontro fra il centrosinistra e i più o meno postfascisti.
Il fronte interno: costruire il “partito”
Con la scissione dimaiana, che ha in qualche modo “pacificato” i conflitti interni e gruppi parlamentari molto ridimensionati dal punto di vista numerico, quindi più governabili, i dirigenti nazionali del Movimento ostentano ottimismo di fronte alla stagione che sta per aprirsi. “Ora dovremo mettere in piedi i coordinamenti regionali, le sedi, la presenza sul territorio”, dicono le voci vicine a Conte. L’ex presidente del Consiglio ha conquistato i suoi, guidandoli a una rimonta che pareva improbabile. Beppe Grillo è rimasto ai margini, non ha neppure mandato il classico messaggio video per la manifestazione di chiusura. Forse è davvero iniziata l’era post-grillina. Ma resta tutta da costruire un’idea di partito, una forma di organizzazione, un progetto politico che, pur partendo senza solidi riferimenti ideologici, vada oltre i quattro o cinque punti fermi di un programma blandamente “progressista”, e dimostri di poter consegnare al passato la stanca retorica anti-casta, che ha prodotto solo una discutibilissima riforma costituzionale e ridotto la rappresentanza democratica in parlamento."