L’emigrazione ebraica in Palestina, in tutte le sue fasi, rappresentò per i Palestinesi una sfida importante. Da un lato si era di fronte a un flusso migratorio costante, animato dalla coscienza di un «recupero» non solo di un’identità ma di una madre patria antica e abbandonata da secoli; una migrazione fortemente sentita, simbolica, che significava anche l'uscita da una condizione di minorità, di persecuzione, di discriminazione: l’«amore per Sion» (Chibbat Zion, dal nome di un movimento idealista ebraico che guidò le prime migrazioni in Palestina) non era quindi soltanto politico ma si rivestiva anche di motivi profondi e persistenti. Dall'altro lato, ci si trovava di fronte a una società araba certo non strutturata come le società «nazionali» europee, ma una società pur sempre caratterizzata da un senso comune di appartenenza per gli Arabi che vi abitavano: essere «palestinesi» non significava essere un non-popolo o, come si espresse un britannico alla fine dell’Ottocento, essere parte di un «accampamento beduino», bensì appartenere a un territorio geograficamente ben definito e caratterizzato, culturalmente ed etnicamente.
I due distretti dell'impero ottomano che comprendevano quella che oggi definiamo Palestina – vale a dire il sanjak di Gerusalemme e il vilayet di Beirut – verso la fine dell'Ottocento acquistano una loro fisionomia e delle caratteristiche che si definirono ancor più in opposizione al nazionalismo turco che si affermò con la rivoluzione del 1908 dei «Giovani Turchi», formando, per contrasto e opposizione, un sentimento nazionale arabo e palestinese. Le ricerche, tra gli altri, di Rashid Khalidi , descrivono con efficacia, ad esempio, come la Palestina si presentasse, alla fine dell’Ottocento, non come una landa desolata che attendeva una colonizzazione, bensì un territorio già caratterizzato da un senso di appartenenza, un dialetto, una connotazione geografica ben definita, e un sentimento di «comunità nazionale» frutto della fusione di arabismo, sentimenti religiosi, opposizione sia alla penetrazione europea sia al dominio ottomano. La stessa pubblicazione del giornale Filastin, edito a Jaffa dal 1911 in poi , che diede voce alle élites nazionaliste palestinesi prima della prima guerra mondiale, è un segnale importante per capire come il mito della «terra senza popolo», caro al sionismo e alla base della propaganda sul «ritorno», sia un mito assolutamente inconsistente. Del resto, una storia – probabilmente apocrifa – citata però da molti autori, israeliani e non, racconta che subito dopo il congresso sionista di Basilea e la proclamazione della necessità di una Jewish home, i rabbini di Vienna inviarono una delegazione in Palestina per verificare la situazione. La risposta degli inviati fu netta: «The bride is beautiful, but she is married to another man». In altre parole, l’emigrazione ebraica, con i primi insediamenti in Palestina presenti dal 1882, era ben consapevole che «la sposa», la terra promessa, la patria eletta, fosse sposata a un altro, la popolazione araba.
L’atteggiamento degli immigrati del resto andava dalla semplice indifferenza nei confronti dei nativi arabi, alla collaborazione – come già accennato – all’ostilità.
Ciononostante, la cosa abbastanza sorprendente – ma tutto sommato comprensibile – del comportamento del movimento sionista, fu che esso da un lato rifiutò sempre di percepire l’esistenza di una questione nazionale araba e, dall’altro, preferì appoggiarsi all’influenza e all’azione delle grandi potenze europee piuttosto che affrontare il problema della istituzionalizzazione della convivenza con l’elemento arabo già presente. Gli immigrati ebrei in Palestina non si considerarono mai come colonialisti, né tantomeno parte del retaggio coloniale europeo; si consideravano persone che “tornavano a casa” dopo duemila anni di esilio forzato; il che non è, al contrario delle apparenze, un argomento solido, bensì diluito dal passare degli eventi e della storia. Dal punto di vista degli arabi, poi, gli ebrei erano stranieri, europei, bianchi, portatori di culture straniere, in una espressione agenti dell’ordine coloniale occidentale. La presunzione sionista, che l’arrivo degli ebrei avrebbe rappresentato per gli arabi un progresso culturale e la liberazione dall’ignoranza è la presunzione tipica di tutti i colonizzatori/colonialisti; gli arabi si videro soltanto nel ruolo di vittime che stavano pagando un prezzo per ingiustizie commesse altrove.
Piero Graglia, Il confine innaturale. La barriera tra Israele e Palestina: origini e motivi di un "muro", People, Busto Arsizio 2021 (dal capitolo "In principio fu il verbo, e la terra").